Negli ultimi anni si registra un aumento del numero di ragazzi che ricorrono all’autolesionismo. Tagliarsi, bruciarsi o infliggersi dolore fisico non è un semplice “capriccio” adolescenziale: spesso è il tentativo disperato di affrontare un disagio interiore che sembra insopportabile.
Molti adolescenti sentono un vuoto difficile da colmare: si percepiscono inadeguati, isolati o incapaci di trovare un posto nel mondo. La pressione sociale, la paura di fallire e il confronto costante con gli altri – amplificato dai social network – possono intensificare questo senso di insufficienza. Il dolore emotivo diventa così forte da sembrare ingestibile, e procurarsi dolore fisico diventa, per alcuni, un modo per “sentire qualcosa” o per distrarre la mente da un tormento invisibile.
L’autolesionismo non è mai una soluzione: non risolve il problema alla radice e può trasformarsi in un circolo vizioso. Il sollievo momentaneo lascia spazio a vergogna, senso di colpa e ulteriore sofferenza. Inoltre, porta conseguenze fisiche e psicologiche gravi, rischiando di diventare una dipendenza pericolosa.
Che cosa possono fare gli adulti? Innanzitutto ascoltare senza giudicare. Un ragazzo che si ferisce non cerca punizione, ma attenzione, comprensione e aiuto. È fondamentale che genitori, insegnanti e amici colgano i segnali di disagio e offrano un supporto concreto, magari incoraggiando il dialogo con professionisti. Creare ambienti in cui ci si senta accolti e non giudicati è essenziale per prevenire il senso di isolamento che spesso alimenta questi comportamenti.
Infine, è importante far capire ai ragazzi che il dolore, per quanto sembri insostenibile, può essere affrontato senza farsi del male. Parlare, scrivere, chiedere aiuto, fare sport, coltivare passioni: esistono modi più sani per gestire la sofferenza.
L’autolesionismo è un grido silenzioso: imparare ad ascoltarlo e rispondere con empatia può salvare non solo la pelle di un ragazzo, ma la sua vita intera.