L’esame di maturità rappresenta, da generazioni, un momento simbolico nella vita di ogni studente: la fine di un ciclo, l’ingresso nell’età adulta, la verifica delle conoscenze acquisite. Ma è davvero un passaggio così formativo? In tempi recenti, alcuni maturandi hanno scelto di protestare contro l’orale, ritenendolo inadeguato, ingiusto, o addirittura umiliante. Questo gesto ha suscitato un acceso dibattito, che riguarda non solo l’esame in sé, ma l’intero sistema di valutazione scolastica.
Chi sostiene la protesta parla di un modello antiquato, nozionistico, che premia la memoria a breve termine più che la comprensione, e che genera ansia senza valorizzare le vere potenzialità degli studenti. Molti lamentano una scuola che misura troppo e educa poco: voti, percentuali, griglie, ma poca attenzione allo sviluppo del pensiero critico, dell’espressione personale, del talento non convenzionale. Inoltre, la valutazione è spesso approssimativa, influenzata da fattori soggettivi, e può penalizzare chi non ha le “competenze scolastiche classiche” ma possiede altri tipi di intelligenza (pratica, artistica, emotiva).
D’altra parte, non si può negare che un criterio di valutazione sia necessario. In una società complessa, serve poter misurare — almeno in parte — ciò che uno studente ha appreso e sa fare. E l’esame orale, per quanto stressante, può offrire uno spazio dove emergono non solo conoscenze, ma anche capacità argomentative, padronanza linguistica, spirito di sintesi. Eliminare ogni forma di prova finale rischierebbe di svuotare di senso il percorso scolastico, dando l’idea che “tanto vale tutto”.
Il punto, forse, non è abolire l’esame, ma ripensarne radicalmente il senso e la forma. Anziché chiedere di ripetere a memoria contenuti spesso già dimenticati il giorno dopo, l’orale potrebbe essere trasformato in un colloquio critico e creativo, dove lo studente espone un proprio percorso personale, fa collegamenti tra discipline, presenta una ricerca originale o un progetto realizzato. In questo modo si stimolerebbe davvero la coltivazione del Sé, anziché semplicemente premiare chi “studia bene per l’interrogazione”.
Già cinquant’anni fa, molti studenti vivevano un disagio simile: percepivano la scuola come un ambiente che spesso non riconosceva le intelligenze divergenti, i talenti irregolari, le personalità non conformi. Quel disagio non era sbagliato. Ma oggi, più che mai, è necessario distinguere la critica costruttiva dalla protesta sterile. Non basta dire “l’esame non serve”: bisogna immaginare cosa metterci al suo posto.
In conclusione, l’esame di maturità può essere ancora un’occasione formativa, ma solo se liberato da automatismi e rigidità. La vera sfida non è eliminare la valutazione, ma renderla più umana, più aderente alla realtà e più capace di valorizzare le infinite forme del talento.
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