“Viviamo in una società borderline?” La domanda, compare sempre più insistentemente negli articoli di psichiatri, psicologi, sociologi accreditati. Talvolta suona come una provocazione, ma contiene una verità che merita attenzione. In effetti, termini come “società borderline” o “società liquida” stanno sempre più entrando nel linguaggio degli esperti, soprattutto in riferimento alle trasformazioni culturali e affettive della tarda modernità.
Cosa si intende davvero con questa espressione? Non si tratta, naturalmente, di diagnosticare un’intera società con un disturbo clinico, ma di cogliere analogie tra alcuni tratti del disturbo borderline di personalità e il modo in cui oggi viviamo le relazioni, il tempo, l’identità. Incertezza, instabilità emotiva, paura dell’abbandono, difficoltà a mantenere legami duraturi: sono dimensioni che sembrano estendersi ben oltre l’ambito terapeutico, diventando esperienze comuni nella nostra quotidianità.
Il sociologo Zygmunt Bauman ha parlato di “modernità liquida” per descrivere un’epoca in cui tutto è diventato più fluido: le istituzioni, i rapporti, le certezze interiori. Anche l’amore, dice Bauman, è diventato “liquido”: spesso consumato rapidamente, all'insegna della gratificazione immediata, sostituibile, incapace di radicarsi. In questo contesto, sentirsi smarriti o instabili non è più un’eccezione, ma quasi una condizione condivisa.
Naturalmente, bisogna evitare ogni semplificazione. Le persone con struttura borderline affrontano una sofferenza autentica, spesso silenziosa, che merita rispetto e comprensione. Molte di loro riescono a condurre una vita piena, a essere efficienti, empatiche, e persino brillanti nei propri ambiti. Il problema, semmai, è che una società “borderline” nel senso culturale rischia di normalizzare l’instabilità, di rendere l’incertezza permanente una condizione inevitabile.
Questa riflessione non offre risposte definitive. Ma pone una domanda urgente: se anche la società in cui viviamo tende alla frammentazione, come possiamo coltivare un senso di sé coerente, relazioni autentiche, e un minimo di stabilità interiore? Forse è questo il compito che ci aspetta: non tanto guarire da una malattia collettiva, ma imparare a stare in piedi su un terreno sempre più mobile.