domenica 29 giugno 2025

Il flusso: quando siamo totalmente immersi in ciò che facciamo

Nella vita quotidiana capita talvolta di sentirsi completamente assorbiti da un’attività: il tempo sembra scomparire, le distrazioni si annullano, la mente è focalizzata e il corpo agisce quasi senza sforzo. Questo stato mentale, che molti hanno sperimentato ma pochi sanno nominare, è stato studiato dallo psicologo ungherese Mihály Csíkszentmihályi, che lo ha chiamato “flow”, cioè “flusso”.

Il concetto di flusso descrive uno stato di concentrazione intensa e gratificante che si verifica quando le capacità di una persona sono perfettamente bilanciate con la difficoltà del compito che sta affrontando. In altre parole, ci sentiamo “nel flusso” quando siamo né annoiati né sopraffatti, ma completamente coinvolti da ciò che stiamo facendo. Questo accade spesso durante attività come suonare uno strumento, praticare sport, dipingere, scrivere, risolvere un problema complesso o anche in certi momenti di studio.

Secondo Csíkszentmihályi, il flusso è una delle chiavi del benessere e della realizzazione personale. Quando siamo in questo stato, ci sentiamo vivi, motivati, creativi, e soddisfatti, anche se l’attività non è direttamente legata a un premio esterno, come il denaro o il successo sociale. Questo perché il flusso ha un valore intrinseco: è appagante in sé, senza bisogno di ricompense.

Oggi, nella società della distrazione, dominata da notifiche, social media e multitasking, sperimentare il flusso è diventato sempre più raro. Molti giovani faticano a concentrarsi per lunghi periodi, e questo può rendere più difficile entrare in quello stato di immersione profonda che permette di imparare davvero, di creare, di migliorarsi. Tuttavia, imparare a riconoscere le condizioni che favoriscono il flusso può aiutare ciascuno a vivere in modo più consapevole e ricco. Ad esempio, scegliere attività che ci appassionano, affrontare sfide adeguate alle nostre competenze e ridurre le distrazioni esterne sono tutti modi per creare le premesse giuste.

Alcuni critici sostengono che puntare al flusso rischi di farci perdere il senso del dovere o della realtà. Ma in realtà, non si tratta di fuggire, bensì di abitare pienamente l’esperienza, coltivando la presenza mentale. Il flusso, quindi, non è evasione, ma impegno profondo.

In conclusione, il flusso è una condizione preziosa, oggi più che mai. Cercarlo, coltivarlo e proteggerlo può aiutarci a studiare meglio, a lavorare con più soddisfazione e persino a vivere in modo più autentico. In un’epoca che premia la velocità e la superficialità, imparare a entrare nel flusso può essere un piccolo atto di resistenza interiore.

martedì 17 giugno 2025

Come funziona un testo narrativo: dentro l’officina del racconto

Quando leggiamo un racconto o un romanzo, spesso ci lasciamo trasportare dalla trama, dai personaggi, dalle emozioni che ci fa provare. Ma dietro a ogni storia ben scritta si nasconde una struttura complessa, fatta di scelte precise e strumenti narrativi ben congegnati. In questo testo vogliamo entrare dentro “l’officina” della narrazione per capire quali sono i suoi meccanismi principali.



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1. Trama e intreccio: l’ossatura della storia


Uno degli elementi fondamentali è la trama. La trama è l’insieme degli eventi principali della storia, disposti in ordine logico e cronologico. L’intreccio, invece, è il modo in cui questi eventi sono organizzati nel racconto. L’autore può decidere, per esempio, di iniziare la storia dalla fine (tecnica in medias res) e poi tornare indietro con dei flashback. Trama e intreccio sono come lo scheletro e il movimento di un corpo: insieme fanno vivere la storia.



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2. Le fasi del racconto: l’arco narrativo


La maggior parte delle storie segue un percorso simile:


Situazione iniziale: ci viene presentato un mondo “normale”.


Elemento scatenante: qualcosa rompe l’equilibrio iniziale (una perdita, un incontro, un conflitto).


Sviluppo o peripezie: il protagonista affronta difficoltà, ostacoli, cambiamenti.


Climax: il momento di massima tensione.


Scioglimento: si risolve il conflitto, si ristabilisce (o meno) un nuovo equilibrio.


Epilogo: chiusura finale, che può essere aperta o conclusiva.




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3. Incipit ed epilogo: le porte della storia


L’incipit è l’inizio del racconto. Serve a catturare l’attenzione del lettore e a introdurre il mondo narrativo. Può essere descrittivo, narrativo, in medias res, enigmatico. L’epilogo, invece, è la chiusura: può sciogliere i nodi narrativi o lasciare volutamente delle domande aperte.



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4. I personaggi: chi muove la storia


Ogni storia ha dei personaggi, e tra questi c’è sempre almeno un protagonista, cioè colui o colei che affronta il percorso principale. Ci sono poi antagonisti, aiutanti, comparse, personaggi secondari. I personaggi ben costruiti hanno motivazioni credibili, un passato, dei desideri, delle contraddizioni. Più sono complessi, più risultano vivi. Attraverso le loro azioni e dialoghi scopriamo chi sono, senza bisogno di descrizioni dirette.



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5. I motori della storia: desideri, conflitti, trasformazioni


Una buona narrazione ha sempre dei “motori” che spingono avanti la vicenda: il desiderio di un personaggio, un mistero da svelare, un conflitto da risolvere. Senza tensione o trasformazione, non c’è storia. Anche i cambiamenti interiori contano: un buon racconto spesso mostra l’evoluzione del protagonista, non solo gli eventi esterni.



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6. Il narratore e il punto di vista


Chi racconta la storia? Il narratore può essere:


Interno: un personaggio che racconta in prima persona (io narrante).


Esterno: una voce esterna, in terza persona, più o meno “onnisciente”.



Il punto di vista è la prospettiva dalla quale vediamo la storia. Può cambiare durante il racconto, oppure restare fisso. Scegliere il punto di vista giusto è fondamentale per creare empatia o mistero.



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7. Le tecniche narrative: pensieri e parole


Oltre ai dialoghi, lo scrittore può usare diverse tecniche per mostrare il mondo interiore dei personaggi:


Monologo interiore: i pensieri del personaggio, spesso in prima persona e in forma continua.


Discorso indiretto libero: i pensieri del personaggio fusi con la voce del narratore, senza virgolette né introduzioni (“Pensava che non avrebbe mai rivisto la madre”).


Flusso di coscienza: un monologo interiore disordinato, vicino al linguaggio del pensiero, usato da scrittori come Joyce o Woolf.



Queste tecniche servono a dare profondità psicologica alla narrazione.



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8. I dialoghi: fare agire le parole


I dialoghi devono sembrare naturali, ma in realtà sono scritti con grande attenzione. Non servono solo a “riempire” la storia, ma a far emergere caratteri, conflitti e tensioni. Un buon dialogo mostra ciò che accade, senza doverlo spiegare.



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9. L’editing: scrivere è riscrivere


Una volta scritta la storia, inizia il lavoro di revisione (editing). Lo scrittore taglia, modifica, riscrive. Spesso la versione finale è molto diversa dalla prima. Scrivere è anche saper togliere: le parti migliori sono spesso quelle più essenziali e pulite.



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10. Lo scrittore e la vita: realtà e finzione


Infine, non si può dimenticare la figura dello scrittore. Ogni autore porta dentro la sua storia qualcosa della propria vita, sensibilità, visione del mondo. Anche se scrive un racconto fantastico o ambientato in un tempo lontano, spesso sta parlando – in modo indiretto – anche di sé. Ma attenzione: realtà e finzione si mescolano. Un buon scrittore non si limita a raccontare la propria vita: la trasforma in una forma d’arte.



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Conclusione


Un testo narrativo non nasce per caso: è il frutto di un equilibrio tra tecnica e ispirazione, tra forma e contenuto. Conoscere i suoi meccanismi non toglie magia alla lettura, ma ci permette di apprezzare ancora di più il talento di chi riesce a farci vivere, per qualche pagina, un’altra vita.


lunedì 16 giugno 2025

Agricoltura oggi: sfide, trasformazioni e opportunità per i giovani

L’agricoltura è uno dei settori più antichi dell’attività umana, ma anche uno dei più colpiti dalle trasformazioni economiche, tecnologiche e ambientali degli ultimi decenni. Dopo millenni di coltivazione basata su pratiche tradizionali, il Novecento ha assistito a un cambiamento radicale noto come Rivoluzione verde. Questo processo, iniziato negli anni ’50, ha portato a un notevole aumento della produttività agricola grazie all’introduzione di sementi selezionate, fertilizzanti chimici, pesticidi e macchinari moderni. In molte aree del mondo, soprattutto in Asia e America Latina, questo ha permesso di ridurre la fame e sostenere la crescita della popolazione.

Tuttavia, il prezzo da pagare non è stato irrilevante. L’uso intensivo di sostanze chimiche e le monoculture hanno spesso danneggiato i suoli, impoverito la biodiversità e aumentato l’inquinamento. In più, i cambiamenti climatici stanno mettendo in crisi i modelli produttivi tradizionali: siccità, eventi meteorologici estremi e desertificazione minacciano la stabilità del settore agricolo, sia nei Paesi in via di sviluppo sia in quelli industrializzati.

In Italia, l’agricoltura rappresenta oggi una piccola parte del PIL nazionale (circa il 2%), ma resta un settore strategico per la sicurezza alimentare, la tutela del paesaggio e la qualità della vita nelle aree rurali. Le produzioni italiane, spesso legate a tradizioni locali e a prodotti di eccellenza (come il vino, l’olio d’oliva, i formaggi), sono molto apprezzate anche all’estero. Nonostante ciò, il comparto soffre di alcune criticità: il ricambio generazionale è lento, la burocrazia è pesante, e i piccoli agricoltori spesso faticano a competere con le grandi aziende agricole.

Ma proprio da queste difficoltà stanno nascendo nuove opportunità per i giovani. Negli ultimi anni, infatti, si sta assistendo a un rinnovato interesse verso l’agricoltura sostenibile, l’agricoltura biologica, la filiera corta e l’agricoltura digitale. Sempre più giovani decidono di tornare alla terra, portando innovazione, sensibilità ecologica e nuove competenze. Si parla oggi di smart farming, ovvero agricoltura intelligente, basata su dati, sensori, droni e intelligenza artificiale, per ottimizzare l’uso delle risorse e migliorare la qualità del lavoro.

Anche le istituzioni, sia italiane che europee, stanno cercando di incentivare questa transizione verde attraverso finanziamenti, programmi formativi e sostegno all’imprenditoria agricola giovanile. La Politica Agricola Comune (PAC), per esempio, destina fondi specifici ai giovani agricoltori under 40.

In conclusione, il settore agricolo si trova oggi a un bivio: da un lato, le sfide ambientali ed economiche; dall’altro, le opportunità legate all’innovazione e alla sostenibilità. Per i giovani che cercano un’attività concreta, con un forte legame con la natura e un impatto positivo sulla società, l’agricoltura può rappresentare una scelta coraggiosa e lungimirante.

venerdì 13 giugno 2025

Innamoramento, infatuazione e amore maturo: imparare a distinguere per amare davvero

Introduzione

Nel corso dell’adolescenza e della giovinezza si fanno le prime esperienze sentimentali, spesso vissute con intensità, entusiasmo e confusione. È facile scambiare una forte attrazione per amore, oppure credere che l’amore vero sia fatto solo di emozioni travolgenti. Tuttavia, imparare a distinguere tra infatuazione, innamoramento e amore maturo è fondamentale per costruire relazioni più autentiche e durature. In questo testo si intende dimostrare che l’amore maturo, pur meno spettacolare delle fasi iniziali, è il tipo di legame più profondo e prezioso, e dovrebbe essere considerato un punto di riferimento dalle giovani generazioni.

Tesi
A differenza dell’infatuazione e dell’innamoramento, che sono fasi iniziali, temporanee e spesso illusorie, l’amore maturo è un sentimento stabile e consapevole, basato sulla conoscenza reale dell’altro, sul rispetto reciproco e sulla volontà di crescere insieme. Per questo rappresenta una vera bussola affettiva per chi desidera relazioni sane e durature.

Argomentazione 1: l’infatuazione è un’illusione che nasce nella mente
L’infatuazione si manifesta come un colpo di fulmine, una passione improvvisa che non lascia spazio alla ragione. Si idealizza l’altro, lo si vede perfetto, e si proiettano su di lui desideri e aspettative. Ma si tratta di un sentimento superficiale, che spesso si spegne quando si inizia a conoscere davvero la persona amata. È più un’illusione che una relazione autentica.

Argomentazione 2: l’innamoramento è intenso ma instabile
L’innamoramento è una fase più coinvolgente e reale dell’infatuazione. Si prova un forte legame emotivo, si desidera la vicinanza dell’altro, si vive in uno stato di euforia. Tuttavia, anche questa fase ha una durata limitata. È influenzata da fattori biologici (come gli ormoni) e tende a calare nel tempo. Quando le emozioni si affievoliscono, molte relazioni finiscono, perché non riescono a trasformarsi in qualcosa di più profondo.

Argomentazione 3: l’amore maturo è una scelta quotidiana, non solo un’emozione
L’amore maturo, al contrario, non si basa sull’idealizzazione né sull’impulso del momento. È un sentimento costruito nel tempo, fondato sulla conoscenza reciproca, sulla fiducia, sul rispetto e sulla responsabilità. Si ama una persona per com’è davvero, con i suoi pregi e i suoi limiti. Questo tipo di amore richiede impegno, pazienza e la capacità di affrontare insieme le difficoltà. Ma proprio per questo è più duraturo e profondo. Non si spegne con la routine, anzi si rafforza nella condivisione quotidiana.

Conclusione
In un’epoca in cui tutto sembra dover essere veloce, perfetto ed emozionante, è importante ricordare che l’amore vero non è quello che fa battere il cuore solo all’inizio, ma quello che continua a farci sentire vivi anche dopo anni, nelle piccole cose di ogni giorno. Educare le nuove generazioni a riconoscere l’amore maturo significa offrire loro uno strumento prezioso per vivere relazioni più consapevoli, libere dalle illusioni romantiche e capaci di resistere nel tempo. In fondo, l’amore più grande non è quello che ci fa perdere la testa, ma quello che ci aiuta a trovare noi stessi, accanto a qualcun altro.

Ferita narcisistica e femminicidio: oltre i luoghi comuni

Quando si parla di femminicidio, il dibattito pubblico si rifugia spesso in spiegazioni generiche e rassicuranti: il patriarcato, la cultura del possesso, la violenza sistemica. Sono letture legittime, ma parziali. Per comprendere fino in fondo cosa spinge un uomo a uccidere la propria compagna, è necessario scavare più a fondo, nelle pieghe più oscure della psiche maschile e delle dinamiche relazionali contemporanee.

Dietro molti femminicidi si nasconde una ferita narcisistica profonda. L’uomo non regge il crollo dell’immagine idealizzata di sé che si era costruito, spesso con fatica, e che viene incrinata da un gesto, una parola, un rifiuto della partner. Può essere un abbandono, una critica pungente, o una svalutazione percepita come umiliante. In questi casi, la reazione non è razionale, ma esplosiva. L’uccisione non è frutto di un desiderio lucido di dominio, ma di un corto circuito identitario: è l’annientamento simbolico di chi ha smascherato l’insufficienza del carnefice.

Questa spiegazione, che ha solide basi nella psicologia del narcisismo patologico, è spesso ignorata perché urta con una narrazione politicamente corretta che dipinge la vittima sempre come figura passiva e l’aggressore come semplice prodotto di un sistema patriarcale. Ma le relazioni sono più complesse. E se è giusto difendere la vittima, è anche giusto cercare di capire fino in fondo cosa scatena la furia distruttiva in certi uomini.

In modo molto soft ma onesto, va riconosciuto che in alcune dinamiche relazionali moderne si è diffusa un’aspettativa femminile verso l’uomo spesso idealizzante, perfezionista, alimentata talvolta da certe derive del femminismo radicale. Si chiede all’uomo di essere forte ma vulnerabile, sicuro ma sensibile, ambizioso ma accogliente. Non tutti reggono questa pressione. E quando si sentono giudicati o inadeguati, alcuni reagiscono con il silenzio, altri con la fuga, altri ancora, nei casi più estremi, con la violenza.

Questo non significa colpevolizzare la donna, ma riconoscere che anche il perfezionismo affettivo, l’intransigenza emotiva, l’incapacità di accogliere l’altro nella sua imperfezione possono diventare fattori di rischio. Le relazioni non dovrebbero essere palestre di prestazione, ma luoghi di reciproca umanità.

Educare all’affettività non significa solo dire agli uomini di non essere violenti, ma anche aiutarli a riconoscere e gestire le proprie fragilità narcisistiche. E insegnare a tutti che l’amore maturo è quello che lascia spazio all’imperfezione, alla delusione, alla verità dell’altro. Solo così si può prevenire la tragedia, prima che esploda.

La devianza: un tema ancora attuale nella società contemporanea

Nel corso del Novecento, in particolare negli anni Settanta e Ottanta, la devianza è stata al centro di molte riflessioni sociologiche e culturali. Si trattava di comprendere perché alcune persone violassero le regole sociali e che ruolo avesse la società nella definizione di ciò che era “normale” e ciò che era “deviato”. Ma oggi, in un mondo così diverso da quello di allora, ha ancora senso parlare di devianza?

La risposta è sì: la devianza resta un tema attuale, ma deve essere letta con occhi nuovi. In primo luogo, è importante capire che non esiste un’unica definizione di devianza: essa indica qualsiasi comportamento che si discosta dalle norme condivise in una determinata società. Tuttavia, le norme cambiano nel tempo e nello spazio: ciò che un tempo era considerato inaccettabile (come il divorzio, i tatuaggi o l’omosessualità) oggi è spesso pienamente accettato o addirittura valorizzato.

In secondo luogo, oggi esistono nuove forme di devianza che non possono essere ignorate. Pensiamo al cyberbullismo, al revenge porn, agli atti di odio online, alle truffe digitali: sono comportamenti devianti che si sviluppano nel mondo virtuale, ma che hanno conseguenze molto concrete. La sociologia deve aggiornare le sue categorie per comprendere questi fenomeni.

Inoltre, è fondamentale ricordare che la devianza non dipende solo da chi trasgredisce, ma anche da chi definisce le regole. Come affermano alcuni sociologi, non esiste un comportamento deviato in sé, ma solo un comportamento che qualcuno definisce tale. In questo senso, parlare di devianza significa anche interrogarsi sul potere: chi decide cos’è “normale”? Chi ha l’autorità per stabilire cosa si può fare e cosa no?

Infine, non tutta la devianza è negativa. In alcuni casi, la devianza può essere un atto di libertà o di giustizia. Basti pensare a coloro che hanno disobbedito a leggi ingiuste per difendere i diritti umani o per protestare contro discriminazioni e abusi. Anche molti movimenti sociali sono nati come forme di devianza rispetto all’ordine stabilito.

In conclusione, la devianza non è un concetto superato. Al contrario, è uno strumento utile per comprendere le trasformazioni della società e per riflettere sul rapporto tra individuo e regole. In un’epoca in cui le norme cambiano rapidamente e in cui la libertà personale convive con nuove forme di controllo, studiare la devianza significa interrogarsi su chi siamo e su quale tipo di società vogliamo costruire.

Quando l’amore diventa una gabbia: le illusioni che fanno male

A volte l’amore non basta. Può sembrare una frase dura, ma è una verità che molti ragazzi e ragazze scoprono tardi, quando una relazione che sembrava perfetta si trasforma in un campo di tensione, di giudizi, di pressioni silenziose. L’amore, per essere sano, ha bisogno di libertà, ascolto, e accettazione reciproca. Ma spesso, nelle relazioni, ci si innamora più dell’idea dell’altro che dell’altro in carne e ossa.

Può capitare che uno dei due idealizzi il partner: lo vede forte, sicuro, sempre all’altezza delle aspettative. Lo ammira, lo mette su un piedistallo. Ma quando questa immagine viene scalfita da una fragilità, da un fallimento, da un limite umano, tutto l’equilibrio si rompe. Il partner idealizzato, sentendosi messo alla prova o giudicato, può reagire con frustrazione, insicurezza, o addirittura con rabbia. In alcuni casi estremi, queste emozioni mal gestite degenerano in comportamenti aggressivi.

Anche l’altro lato della medaglia è pericoloso. Se si ama qualcuno solo a condizione che corrisponda al modello perfetto che ci siamo costruiti — che sia forte, brillante, sempre disponibile — allora non si sta amando una persona reale, ma un’immagine. E quando quella persona esprime un lato debole o diverso, può sentirsi rifiutata o non accolta. In queste condizioni, la relazione può diventare una gabbia, anziché un rifugio.

Soprattutto tra i giovani, dove l’identità è ancora in costruzione, l’amore può diventare un modo per sentirsi “giusti”, “confermati”, “di valore”. Ma se l’altro non ci permette di essere noi stessi, con le nostre incertezze, ansie o desideri, allora l’amore diventa una fonte di dolore, invece che di crescita.

È importante imparare a distinguere un amore che nutre da uno che consuma. Un amore sano lascia spazio all’imperfezione, al dialogo, alla possibilità di sbagliare. Un amore malato, invece, impone, giudica, controlla. In casi estremi, può anche trasformarsi in violenza.

Per questo è fondamentale educarsi — e educare — alla consapevolezza affettiva. Riconoscere i segnali di disagio, ascoltare l’altro senza pretendere che sia perfetto, imparare a comunicare i propri limiti senza vergogna. Solo così si può costruire una relazione vera, in cui nessuno debba fingere o reprimere ciò che è.

Il fenomeno “incel”: frustrazione maschile, misoginia e reazione al neofemminismo

Negli ultimi anni ha acquisito crescente visibilità il fenomeno degli incel, abbreviazione di involuntary celibates, ovvero “celibi involontari”. Si tratta di un movimento, nato principalmente online, composto in larga parte da uomini eterosessuali che si definiscono incapaci di instaurare relazioni affettive o sessuali con le donne. Sebbene le ragioni personali e psicologiche dietro questo disagio siano complesse e differenti da individuo a individuo, il discorso collettivo che molti incel condividono e alimentano sui forum digitali è spesso fortemente misogino, vittimista e aggressivo.

Alla base dell’identità incel c’è una visione rigidamente gerarchica delle relazioni tra i sessi. Secondo la loro narrativa, solo una piccola percentuale di uomini fisicamente attraenti — definiti “Chad” — riuscirebbe a ottenere l’attenzione delle donne, mentre tutti gli altri sarebbero condannati a una solitudine ingiusta e umiliante. Le donne, a loro volta, vengono spesso descritte come ipergame (cioè attratte solo da uomini di status superiore), manipolatrici e superficiali. In questo modo, invece di riflettere criticamente su sé stessi, molti incel finiscono per incolpare l’intero genere femminile della propria infelicità.

Ma il fenomeno incel non è solo un’espressione di disagio esistenziale: è anche, probabilmente, una reazione sociale e culturale alle trasformazioni avvenute nel rapporto tra i sessi nell’ultimo secolo. In particolare, sembra configurarsi come un contraccolpo rispetto ai progressi del femminismo, in particolare nella sua versione più recente e radicale. L’emancipazione delle donne, il loro crescente accesso all’istruzione, al lavoro e all’autodeterminazione sessuale, ha messo in discussione i ruoli tradizionali maschili, generando in alcuni uomini una crisi di identità e di potere.

La società patriarcale, che per secoli ha assegnato agli uomini il ruolo di dominatori e alle donne quello di subordinate, non è crollata senza conseguenze. Per alcuni, il nuovo equilibrio è fonte di libertà e parità. Per altri, invece, rappresenta una minaccia. Gli incel fanno parte di questa seconda categoria: si sentono “spodestati” da un mondo in cui le donne non dipendono più dagli uomini, né economicamente né sessualmente. Il risultato è un mix tossico di nostalgia per il passato, risentimento verso il presente e odio verso l’altro sesso.

È importante sottolineare che non tutti coloro che provano frustrazione affettiva o sessuale sono incel. Il passaggio che trasforma una sofferenza individuale in un’ideologia pericolosa avviene quando si smette di cercare soluzioni costruttive e si inizia a cercare colpevoli esterni, demonizzando l’altro. Alcuni incel, purtroppo, sono arrivati a compiere atti estremi, come attentati o omicidi, motivati dall’odio contro le donne. Anche per questo il fenomeno non può essere sottovalutato o derubricato a semplice espressione di disagio giovanile.

In conclusione, il movimento incel appare come una forma di regressione e di difesa identitaria da parte di uomini che non riescono ad accettare i cambiamenti avvenuti nella condizione femminile. La lotta per l’uguaglianza di genere, infatti, non ha solo liberato le donne da molti vincoli sociali, ma ha anche costretto gli uomini a ridefinirsi. Alcuni lo hanno fatto, altri resistono con rabbia. È nostro compito, come cittadini e studenti, comprendere le radici di queste reazioni e contrastarne gli esiti più pericolosi, promuovendo una cultura del rispetto reciproco e dell’ascolto.

giovedì 12 giugno 2025

Immagina la tua vita da vecchio


Quando si ha quindici, diciassette o anche vent'anni, la vecchiaia sembra una terra lontanissima, quasi un pianeta sconosciuto. I vecchi appaiono spesso stanchi, lenti, fuori tempo. A volte fanno tenerezza, altre volte mettono malinconia. Ma raramente ci si immagina vecchi. O se lo si fa, è con un certo terrore, pensando alla solitudine, alle malattie, alla perdita di senso. Come se la vita, dopo una certa età, fosse solo attesa. Un lento spegnersi.


Eppure non è così. Non sempre.


Provo a immaginare la mia vecchiaia, non come una condanna, ma come una nuova stagione. Magari più silenziosa, certo più fragile nel corpo, ma anche più libera. Una stagione in cui si smette finalmente di dover dimostrare qualcosa agli altri. In cui ci si può concedere di essere se stessi. Di scegliere ciò che davvero conta. Di lasciare andare il superfluo.


Penso che da vecchio mi piacerebbe leggere, scrivere, camminare nella natura. Avrei più tempo per riflettere, per osservare le cose con calma, per ascoltare il silenzio. Avrei meno fretta, meno rumore attorno, meno ruoli da interpretare. Mi piacerebbe circondarmi solo di chi mi riconosce per ciò che sono. Non avrei più bisogno di piacere a tutti. Forse scoprirei lati nuovi di me stesso, persino più veri. Perché si cambia anche a settant'anni. E a volte, proprio allora, si comincia a capire davvero chi si è.


La vecchiaia può essere anche un tempo di gioie sottili, di libertà nuova, di scoperta. Lontani dalla pressione sociale, ci si può permettere di essere più autentici, più essenziali. Si può ridere con più leggerezza, ammettere i propri errori senza vergogna, e imparare ancora. Sì, perché anche da vecchi si impara. Forse con più lentezza, ma con più profondità. E se il corpo a volte tradisce, lo sguardo sul mondo può diventare più acuto, più comprensivo, meno giudicante.


Non è vero che la vecchiaia sia solo un deserto. Può essere un tempo pieno. Di cose piccole, di gratitudine, di consapevolezza. Può essere il completamento, mai del tutto finito, di sé stessi. Un tempo in cui, finalmente, si ha il permesso di essere umani.


E forse, immaginandola così, ha meno senso averne paura.

mercoledì 11 giugno 2025

NEET: un capitale umano da non sprecare


In Italia e in molti altri paesi, esiste una fascia di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studia, non lavora e non è inserita in percorsi di formazione. Vengono chiamati NEET (Not in Education, Employment or Training). Spesso se ne parla con toni negativi, come se si trattasse di persone pigre o disinteressate al proprio futuro. Ma è davvero così semplice?


Dietro al fenomeno dei NEET si nasconde qualcosa di molto più complesso. In molti casi, questi ragazzi e ragazze non hanno perso la voglia di costruirsi un domani: semplicemente, non vedono la strada. Alcuni vivono in contesti familiari difficili, altri si trovano in zone d’Italia (o del mondo) dove mancano le opportunità, le infrastrutture e il lavoro. Altri ancora soffrono di disagi psicologici non riconosciuti, come ansia, depressione o senso di inadeguatezza, e si sentono sopraffatti da un mondo che chiede sempre di essere “vincenti”.

C'è anche chi si è chiuso in una visione nichilista, rifiutando un sistema che appare falso, corrotto, ingiusto. Alcuni giovani, infatti, non sono “assenti” perché non hanno idee, ma proprio perché le hanno: idee forti, spesso di rifiuto radicale, che li spingono a isolarsi o a rinunciare a cercare un posto nella società. Tuttavia, anche questa rabbia, anche questo rifiuto, sono segni di vita. Sono la prova che dietro il silenzio, dietro il vuoto apparente, esiste un’energia che può essere trasformata.


Un ragazzo che oggi è un NEET potrebbe diventare, con il giusto aiuto, un artista, un tecnico, un infermiere, un imprenditore o semplicemente un buon cittadino. È un capitale umano che la società non può permettersi di ignorare. Non solo per ragioni economiche, ma per una questione etica: ogni giovane che si perde è una sconfitta collettiva. Ogni potenzialità inespresso è una ferita al futuro.


Per questo, servono politiche coraggiose, capaci di ascoltare questi giovani, di intercettarli, di motivarli, di offrire loro occasioni reali. Serve più orientamento nelle scuole, più supporto psicologico, più investimenti nei territori svantaggiati, più educazione alla speranza. E serve anche un cambio di sguardo da parte degli adulti: meno giudizio, più comprensione.


I NEET non sono "falliti". Sono spesso giovani in attesa. In attesa di un senso, di una fiducia, di una chiamata. La società ha il dovere di rispondere. Perché in ognuno di loro, magari nascosta sotto il peso dell’apatia o del dolore, brilla una scintilla che può ancora accendersi.

lunedì 9 giugno 2025

Freud e la psicoanalisi: un’eredità preziosa ma oggi superata


Sigmund Freud è stato senza dubbio uno degli intellettuali più influenti del Novecento. Le sue idee hanno rivoluzionato il modo di pensare alla mente umana, introducendo concetti come l’inconscio, il sogno come via d’accesso ai desideri nascosti, e la rimozione come meccanismo di difesa. Inoltre, va riconosciuto che Freud era anche un grande scrittore: i suoi testi sono eleganti, pieni di immagini potenti e capaci di coinvolgere il lettore.

Tuttavia, è importante non cadere nell’errore di considerare le teorie freudiane come verità assolute e definitive. La psicoanalisi di Freud si basa su un modello molto semplice e lineare della psiche, che oggi appare superato. Freud immaginava la mente come un sistema “idraulico”, dove le emozioni e le pulsioni si accumulano e devono essere scaricate per non creare problemi. Questo modello funziona come una metafora efficace, ma non corrisponde più a quello che sappiamo oggi grazie alla scienza moderna.

La fisica del Novecento, con la teoria della relatività e la fisica quantistica, ha mostrato che il mondo non è mai così prevedibile e lineare come sembrava. Anche la scienza della mente si è evoluta moltissimo: oggi sappiamo che il cervello e la mente sono sistemi complessi, dinamici e non riducibili a semplici cause e effetti. Per esempio, il concetto di rimozione non è più visto come un meccanismo rigido e meccanico, ma piuttosto come una metafora utile per descrivere come spesso tendiamo a evitare o dimenticare ricordi dolorosi.

Ciò non significa che Freud non abbia lasciato un’eredità importante. Le sue intuizioni hanno aperto la strada a nuovi modi di capire noi stessi e le relazioni umane. Però, è essenziale affrontare le sue teorie con spirito critico, sapendo distinguere ciò che resta valido come spunto culturale o letterario, da ciò che invece è stato superato da nuove scoperte e approcci scientifici.

In conclusione, Freud rimane una figura chiave nella storia delle idee, ma la sua psicoanalisi va considerata con attenzione e aggiornamento, evitando di trasformarla in un dogma. Solo così possiamo apprezzarne davvero il valore, senza rimanere ancorati a una visione del mondo che oggi sappiamo troppo semplicistica.

domenica 8 giugno 2025

La mindfulness: uno strumento per ritrovare calma e consapevolezza

 Viviamo in un mondo che corre veloce. Ogni giorno siamo sommersi da impegni, notifiche, aspettative e pressioni: a scuola, a casa, nelle relazioni. In questo contesto, non è raro che anche gli adolescenti sperimentino ansia, confusione e stress. È qui che entra in gioco la mindfulness, una pratica che può aiutare a ritrovare equilibrio, consapevolezza e benessere.

La mindfulness, parola inglese che significa “consapevolezza”, si basa su un’idea semplice ma rivoluzionaria: imparare a prestare attenzione, nel momento presente, in modo intenzionale e senza giudicare. Non si tratta di “staccare la mente” o fuggire dai problemi, ma di imparare a osservarli con lucidità, accogliendo emozioni e pensieri senza esserne travolti.

Diversi studi scientifici hanno dimostrato che la pratica regolare della mindfulness riduce lo stress, migliora la concentrazione e favorisce una maggiore stabilità emotiva. Per gli studenti, questo può tradursi in benefici concreti: affrontare meglio le interrogazioni, dormire con più serenità, gestire l’ansia da prestazione, migliorare i rapporti con compagni e familiari.

Certo, non si può pensare che basti chiudere gli occhi per cinque minuti per cambiare la propria vita. La mindfulness richiede impegno, costanza e apertura mentale. All’inizio può sembrare difficile “stare nel presente”, soprattutto quando si è abituati a distrarsi continuamente con lo smartphone o a preoccuparsi per il futuro. Ma con il tempo, si impara a rallentare, a respirare, ad ascoltarsi. E questo può fare la differenza.

Alcuni critici sostengono che la mindfulness sia una moda passeggera o un modo per evitare di affrontare i problemi alla radice. Ma in realtà, se praticata seriamente, può diventare uno strumento potente di crescita personale. Aiuta a conoscersi meglio, a distinguere ciò che è importante da ciò che è superfluo, a prendersi cura di sé in modo più autentico.

In conclusione, la mindfulness non è una bacchetta magica, ma può offrire un valido aiuto per chi desidera vivere in modo più presente e consapevole. In un’epoca frenetica e spesso caotica, imparare a fermarsi e respirare può essere un atto rivoluzionario — e profondamente umano.

Genere, mascolinità e femminilità nella nostra epoca

Negli ultimi decenni, il concetto di genere ha assunto un'importanza crescente nel dibattito sociale e culturale. A differenza del sesso biologico, che si riferisce alle caratteristiche fisiche con cui si nasce, il genere riguarda l’insieme dei comportamenti, delle aspettative e dei ruoli che una società associa al fatto di essere maschi o femmine. Questo significa che mascolinità e femminilità non sono realtà fisse e immutabili, ma costruzioni sociali che possono cambiare nel tempo e nello spazio.

Oggi viviamo in un’epoca in cui le definizioni tradizionali di mascolinità e femminilità vengono messe in discussione. Un tempo, ad esempio, si considerava "maschile" essere forte, autoritario, razionale, e "femminile" essere dolce, emotiva, accudente. Questi stereotipi non solo limitano la libertà degli individui, ma spesso causano sofferenza: basti pensare agli uomini che si sentono giudicati se mostrano fragilità, o alle donne che vengono sminuite se ambiscono a ruoli di potere.

La cultura contemporanea ha cominciato a riconoscere che ognuno ha il diritto di esprimere la propria identità al di là delle aspettative imposte. Sempre più persone rivendicano la libertà di non identificarsi pienamente né come uomini né come donne, o di vivere una mascolinità e una femminilità più personali e autentiche. Questo non significa negare le differenze biologiche, ma smettere di farle coincidere rigidamente con ruoli prestabiliti.

Tuttavia, il cambiamento non è privo di resistenze. In molte realtà sociali e culturali, soprattutto quelle più tradizionaliste, persiste l’idea che esista un solo modo “giusto” di essere uomini o donne. I media, la pubblicità e perfino certi messaggi familiari continuano spesso a proporre modelli stereotipati. Per questo è importante sviluppare un pensiero critico e consapevole.

In conclusione, comprendere il concetto di genere e riflettere su cosa significhi essere maschi o femmine oggi è fondamentale per costruire una società più giusta e rispettosa delle differenze. Mascolinità e femminilità non devono essere gabbie, ma possibilità aperte, in cui ciascuno possa riconoscersi e sentirsi libero di essere sé stesso.

martedì 3 giugno 2025

Il matrimonio tradizionale sopravviverà? Un’istituzione sotto esame

Il matrimonio, pilastro della società per secoli, oggi appare sempre più fragile. Una volta era considerato il traguardo naturale della vita adulta, oggi è spesso oggetto di dubbio, rinvio o rifiuto. Le trasformazioni sociali, culturali e psicologiche hanno modificato profondamente la concezione della coppia e della famiglia, portando molti a chiedersi: il matrimonio tradizionale ha ancora un futuro?

Il declino del matrimonio come norma sociale

In passato, sposarsi era quasi un obbligo. Il matrimonio serviva a regolare la sessualità, garantire la discendenza, consolidare alleanze economiche o sociali. Oggi, queste funzioni si sono indebolite. La contraccezione ha separato sessualità e procreazione, la donna ha conquistato autonomia economica e identitaria, e l’individuo ha acquisito un diritto quasi sacro alla realizzazione personale.

Secondo il filosofo Pascal Bruckner, nel suo saggio Il matrimonio d’amore ha fallito, il fallimento del matrimonio non sta nella sua fine, ma nelle sue promesse troppo grandi. Dopo aver liberato l’amore da obblighi sociali e morali, lo abbiamo caricato di aspettative eccessive: passione eterna, complicità profonda, felicità quotidiana. In altre parole, abbiamo trasformato l’amore in un dovere continuo. Quando la realtà non è all’altezza del mito, ci sentiamo delusi, e abbandoniamo.

Un cambiamento nei bisogni affettivi

Anche lo psicologo Matteo Lancini ha messo in luce come le nuove generazioni vivano la coppia in modo differente rispetto al passato. I giovani oggi crescono in un contesto affettivo più centrato sull’autenticità e sul riconoscimento reciproco. Non cercano più un’unione “per dovere”, ma desiderano relazioni fondate su dialogo, empatia e rispetto. Tuttavia, questa ricerca può diventare paralizzante: di fronte al minimo conflitto, molti temono di aver sbagliato partner e preferiscono chiudere, invece di negoziare. Come nota Lancini, l’educazione sentimentale attuale insegna ad ascoltare sé stessi, ma non sempre a reggere la frustrazione e a costruire un legame duraturo.

Matrimonio: una forma tra le tante

I dati confermano la crisi della forma tradizionale: in Italia i matrimoni sono in calo da decenni, l’età media al primo matrimonio è oltre i 33 anni, e le convivenze crescono. Inoltre, aumentano le famiglie ricomposte, omogenitoriali, monogenitoriali. Questo non significa che la coppia sia finita: le persone continuano ad amarsi, ma rifiutano modelli rigidi. Il matrimonio può sopravvivere, ma solo come scelta consapevole, non come destino sociale.

Conclusione: verso un matrimonio più umano

Il matrimonio non è morto, ma deve accettare i propri limiti. Non può garantire la felicità perpetua, né risolvere tutti i problemi dell’esistenza. Se liberato dalle illusioni romantiche e riscoperto come patto tra persone libere e responsabili, potrebbe non solo sopravvivere, ma diventare una forma di relazione più vera. In caso contrario, continuerà a perdere terreno di fronte a modelli più fluidi, capaci di adattarsi meglio alla complessità affettiva del nostro tempo.

lunedì 2 giugno 2025

Far amare la lettura: una sfida possibile per la scuola


Far amare la lettura: una sfida possibile per la scuola

Si ripete spesso che i giovani non leggono, che “odiano i libri” o che considerano la lettura noiosa, inutile, distante dalla loro vita reale. Ma è davvero così? O forse il problema non è nei ragazzi, ma nel modo in cui la lettura viene proposta, spesso imposta, senza lasciare spazio al gusto, alla curiosità, alla scoperta personale?

La scuola, se vuole davvero formare lettori, deve smettere di concepire la lettura come un dovere scolastico da assolvere per il voto e iniziare a proporla come un’esperienza che arricchisce, emoziona e fa crescere. Leggere non serve solo per migliorare il lessico o la scrittura: è uno strumento potente per conoscere sé stessi e il mondo. Le storie parlano delle nostre paure, dei nostri desideri, delle nostre domande. Chi legge non è mai solo.

Ma come può la scuola accendere questo interesse? Innanzitutto, lasciando più libertà di scelta. Un ragazzo che può scegliere tra più titoli – magari legati ai suoi gusti, interessi o esperienze – sarà più motivato a leggere. I classici della letteratura sono importanti, ma vanno accompagnati da testi contemporanei, vicini alla sensibilità degli adolescenti. Il dialogo tra passato e presente è ciò che può renderli vivi.

In secondo luogo, è fondamentale leggere insieme. La lettura condivisa, ad alta voce o in piccoli gruppi, crea comunità e coinvolgimento. Un libro letto da soli può diventare molto più ricco se se ne parla con altri. Le “biblioteche di classe”, i circoli di lettura scolastici, le recensioni creative (sotto forma di video, podcast, disegni, meme) sono strumenti validi per rendere la lettura un’esperienza attiva, non passiva.

Un ruolo decisivo lo ha anche l’insegnante-lettore. Un docente che legge per piacere, che racconta i libri che ama con passione, che si emoziona davanti a una pagina ben scritta, può essere contagioso. I ragazzi captano l’autenticità, e nulla è più efficace del buon esempio.

Infine, la scuola potrebbe collaborare con biblioteche, librerie, autori e festival letterari, portando i ragazzi a incontrare i libri nei luoghi in cui vivono davvero, e non solo tra i banchi. Un incontro con uno scrittore o una visita a una fiera del libro possono lasciare un segno profondo.

In conclusione, leggere non è un obbligo da sopportare, ma un diritto da scoprire. La scuola ha il compito – e l’opportunità – di creare le condizioni perché questo incontro avvenga. Non tutti diventeranno lettori forti, ma tutti hanno il diritto di sapere che esiste un mondo silenzioso, fatto di parole e pensiero, che può cambiare la vita.

La lettura profonda: un atto di resistenza nell’era digitale

Nell’epoca dei social media, delle notifiche continue e delle notizie flash, la lettura profonda sembra un’attività fuori moda. Eppure, mai come oggi abbiamo bisogno di recuperarla. Ma cosa si intende con “lettura profonda”? Non è semplicemente il fatto di leggere, ma il farlo con attenzione, concentrazione e riflessione, immergendosi nel testo, cogliendone i significati nascosti e dialogando con le sue idee.

La lettura profonda richiede tempo, silenzio e disponibilità interiore. Diversamente dalla lettura superficiale – quella che si fa scorrendo post su Instagram o titoli di giornale online – essa stimola la mente, allena la memoria e sviluppa il pensiero critico. Non si tratta solo di decifrare le parole, ma di elaborare ciò che leggiamo, collegarlo alle nostre esperienze, porci domande, talvolta anche mettere in discussione ciò che pensavamo di sapere.

Diversi studi neuroscientifici mostrano che l’uso eccessivo di dispositivi digitali può danneggiare la capacità di concentrarsi a lungo su un testo complesso. Il cervello si abitua a “saltare” da una notizia all’altra, da un link all’altro, e perde l’abilità di seguire un ragionamento articolato. In questo senso, la lettura profonda è anche un atto di resistenza culturale: leggere un romanzo, un saggio o un classico significa sottrarsi alla logica della velocità e ritrovare un rapporto più autentico con le parole.

Inoltre, leggere in profondità educa all’empatia. Quando leggiamo un buon libro, ci mettiamo nei panni dei personaggi, condividiamo le loro emozioni, viviamo altre vite oltre la nostra. Questo ci rende più consapevoli, più umani. E in una società spesso dominata dalla superficialità, la lettura diventa uno strumento per sviluppare un pensiero più maturo e responsabile.

Naturalmente, non si tratta di demonizzare le nuove tecnologie, ma di non rinunciare a ciò che esse rischiano di indebolire. La lettura profonda non è incompatibile con il mondo digitale, ma richiede delle scelte: ritagliarsi dei momenti di silenzio, leggere con lentezza, evitare le distrazioni. In fondo, è una questione di priorità.

In conclusione, la lettura profonda non è solo una pratica culturale, ma un’esigenza per chi vuole pensare con la propria testa e non limitarsi ad assorbire passivamente ciò che circola in rete. È un esercizio di libertà, di attenzione e di profondità, virtù indispensabili per chi vuole crescere davvero.

L’ascolto profondo: un’arte da riscoprire


In un mondo frenetico e sovraccarico di stimoli, l’arte dell’ascolto profondo rischia di diventare una pratica dimenticata. Troppo spesso si confonde l’ascoltare con il semplice udire, ma ascoltare davvero significa prestare attenzione con mente e cuore a ciò che l’altro comunica, sia con le parole che con i silenzi.

L’ascolto profondo è una forma di rispetto. Chi ascolta in profondità non interrompe, non giudica subito, non pensa a cosa rispondere mentre l’altro parla. È presente, attento, ricettivo. Questo tipo di ascolto permette di comprendere meglio non solo i contenuti, ma anche le emozioni e i bisogni dell’interlocutore. In un’epoca dominata dai social media e dalle conversazioni veloci, questo atteggiamento può sembrare quasi rivoluzionario.

Le relazioni umane si nutrono dell’ascolto. Nelle amicizie, nei rapporti familiari, a scuola o sul lavoro, sapersi ascoltare davvero aiuta a prevenire conflitti, a creare legami più profondi e a sviluppare empatia. Non è un caso che molti malintesi nascano proprio dalla mancanza di ascolto. Quando si ha la sensazione di non essere ascoltati, ci si sente invisibili e incompresi, ed è facile che la comunicazione si interrompa.

Inoltre, l’ascolto profondo è una capacità che può essere coltivata. Richiede attenzione, pazienza e allenamento. Spesso implica il silenzio, non come assenza di parole, ma come spazio per accogliere l’altro. Implica anche autocontrollo: non reagire subito, non voler avere sempre ragione, ma cercare di mettersi nei panni dell’altro.

Infine, ascoltare in profondità non significa solo prestare attenzione agli altri, ma anche a se stessi. Saper ascoltare il proprio mondo interiore – emozioni, pensieri, desideri – è essenziale per conoscere se stessi e vivere in modo più consapevole.

In conclusione, l’ascolto profondo è molto più che una semplice abilità comunicativa: è un modo di stare nel mondo, di relazionarsi con gli altri in maniera autentica. È un’arte che può migliorare la qualità delle nostre relazioni e, in definitiva, anche la nostra vita. Per questo, andrebbe insegnato e praticato con impegno, a partire proprio dalla scuola.