Quando si parla di femminicidio, il dibattito pubblico si rifugia spesso in spiegazioni generiche e rassicuranti: il patriarcato, la cultura del possesso, la violenza sistemica. Sono letture legittime, ma parziali. Per comprendere fino in fondo cosa spinge un uomo a uccidere la propria compagna, è necessario scavare più a fondo, nelle pieghe più oscure della psiche maschile e delle dinamiche relazionali contemporanee.
Dietro molti femminicidi si nasconde una ferita narcisistica profonda. L’uomo non regge il crollo dell’immagine idealizzata di sé che si era costruito, spesso con fatica, e che viene incrinata da un gesto, una parola, un rifiuto della partner. Può essere un abbandono, una critica pungente, o una svalutazione percepita come umiliante. In questi casi, la reazione non è razionale, ma esplosiva. L’uccisione non è frutto di un desiderio lucido di dominio, ma di un corto circuito identitario: è l’annientamento simbolico di chi ha smascherato l’insufficienza del carnefice.
Questa spiegazione, che ha solide basi nella psicologia del narcisismo patologico, è spesso ignorata perché urta con una narrazione politicamente corretta che dipinge la vittima sempre come figura passiva e l’aggressore come semplice prodotto di un sistema patriarcale. Ma le relazioni sono più complesse. E se è giusto difendere la vittima, è anche giusto cercare di capire fino in fondo cosa scatena la furia distruttiva in certi uomini.
In modo molto soft ma onesto, va riconosciuto che in alcune dinamiche relazionali moderne si è diffusa un’aspettativa femminile verso l’uomo spesso idealizzante, perfezionista, alimentata talvolta da certe derive del femminismo radicale. Si chiede all’uomo di essere forte ma vulnerabile, sicuro ma sensibile, ambizioso ma accogliente. Non tutti reggono questa pressione. E quando si sentono giudicati o inadeguati, alcuni reagiscono con il silenzio, altri con la fuga, altri ancora, nei casi più estremi, con la violenza.
Questo non significa colpevolizzare la donna, ma riconoscere che anche il perfezionismo affettivo, l’intransigenza emotiva, l’incapacità di accogliere l’altro nella sua imperfezione possono diventare fattori di rischio. Le relazioni non dovrebbero essere palestre di prestazione, ma luoghi di reciproca umanità.
Educare all’affettività non significa solo dire agli uomini di non essere violenti, ma anche aiutarli a riconoscere e gestire le proprie fragilità narcisistiche. E insegnare a tutti che l’amore maturo è quello che lascia spazio all’imperfezione, alla delusione, alla verità dell’altro. Solo così si può prevenire la tragedia, prima che esploda.
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