martedì 12 agosto 2025

Che cos’è il Sé?

 Quando pensiamo a noi stessi, spesso immaginiamo un “io” stabile e definito, una persona con caratteristiche precise che non cambiano mai. Ma è davvero così? Il Sé, cioè ciò che siamo, è qualcosa di fisso oppure cambia nel tempo?


In realtà, la scienza e la psicologia moderna dicono che il Sé non è un oggetto immutabile, ma un processo dinamico. Non c’è un “io” scolpito nella pietra, ma piuttosto un flusso continuo di pensieri, emozioni, ricordi e esperienze che si trasformano giorno dopo giorno.


Questa idea significa che non siamo legati per sempre a un’immagine di noi stessi, né a un modo di essere. Possiamo cambiare, crescere, imparare cose nuove, superare paure e scoprire lati di noi che prima ignoravamo. Il Sé è come un fiume: non è mai lo stesso, perché l’acqua scorre e si rinnova continuamente.


Questo non vuol dire che non abbiamo un’identità, ma che la nostra identità è flessibile e aperta al cambiamento. Capire questo ci aiuta ad accettare i momenti difficili, come la paura o il dolore, senza sentirci sopraffatti. Se il Sé fosse rigido, ogni problema rischierebbe di farci crollare, perché metterebbe in discussione “chi siamo”.


Al contrario, se vediamo il Sé come un processo che si adatta, possiamo affrontare le sfide con più coraggio e serenità. Possiamo osservare i nostri pensieri e sentimenti senza identificarci completamente con loro, imparando a vivere con consapevolezza e libertà.


In conclusione, il Sé non è una statua fissa da proteggere a tutti i costi, ma un fiume che scorre, in cui possiamo navigare e costruire la nostra strada, giorno dopo giorno.

giovedì 7 agosto 2025

Ciò che ieri spaventava, oggi ci aiuta a vivere meglio

Introduzione


La storia dell’umanità è costellata di innovazioni che, al momento della loro comparsa, sono state accolte con diffidenza, se non addirittura ostilità. Il cambiamento fa paura, soprattutto quando scuote le certezze consolidate. Eppure, ciò che ieri veniva considerato dannoso o pericoloso, spesso si rivela, con il tempo e con l’esperienza, una risorsa preziosa per migliorare la qualità della vita. Questo vale soprattutto per le tecnologie digitali, a lungo demonizzate, ma oggi ormai indispensabili.


Sviluppo


Basti pensare al modo in cui venivano percepiti i videogiochi solo qualche decennio fa: molti adulti li vedevano come strumenti di isolamento, di alienazione e perfino di incattivimento. Alcuni studi superficiali li collegavano all’aggressività o alla pigrizia mentale. Oggi, invece, ricerche più serie e aggiornate hanno dimostrato che i videogiochi, se usati con equilibrio, possono sviluppare il pensiero strategico, la coordinazione occhio-mano, la capacità di cooperazione e perfino l’empatia nei giochi narrativi.


Un altro esempio è la scuola digitale. Durante la pandemia, l’insegnamento a distanza è stato spesso criticato, ma ha anche mostrato come le tecnologie possano rendere l’istruzione più accessibile, inclusiva e flessibile. Oggi molte scuole e università offrono corsi online, e questo ha permesso a migliaia di persone di formarsi pur vivendo in zone isolate, lavorando a tempo pieno o avendo problemi di salute.


Anche la terapia psicologica online, inizialmente vista con scetticismo, si è rivelata efficace, comoda e meno stigmatizzante per chi ha difficoltà ad affrontare un percorso in presenza. Molti psicologi oggi usano piattaforme sicure per aiutare i pazienti, anche a distanza.


E cosa dire dello smartphone e della connessione costante? A lungo accusati di “rovinare le relazioni”, oggi sono strumenti che ci permettono di comunicare con chiunque, lavorare da remoto, imparare una lingua, organizzare un viaggio, monitorare la salute, ascoltare musica o leggere notizie in tempo reale. Le app, che molti adulti giudicano ancora “una perdita di tempo”, sono in realtà uno strumento potente per orientarsi, risparmiare, imparare, allenarsi, rilassarsi.


Tuttavia, spesso si scambia l’effetto con la causa. Se un ragazzo si isola, non è colpa della tecnologia in sé, ma forse di un malessere preesistente. La tecnologia può essere uno specchio, non la radice del problema. Il vero pericolo è usare questi strumenti senza consapevolezza, non usarli in sé.


Conclusione


La diffidenza verso il nuovo è comprensibile, ma non deve mai diventare un muro contro il futuro. Molti nostalgici della vita “naturale” o rurale dimenticano quanto fosse dura la vita senza elettricità, cure mediche, trasporti o istruzione accessibile. L’innovazione non è un nemico della tradizione: può affiancarla, migliorarla, trasformarla.


Avere una mente aperta, creativa e capace di giudicare con equilibrio ciò che la modernità ci offre è forse la vera sfida del nostro tempo. Non tutto ciò che è nuovo è buono, ma nemmeno tutto ciò che è vecchio è saggio. Saper distinguere, sperimentare, imparare e rivedere le proprie idee alla luce dei fatti è il segno di una persona libera e consapevole.

martedì 5 agosto 2025

Il coraggio di pensare con la propria testa: l’attualità di Ralph Waldo Emerson

In un mondo in cui è facile lasciarsi influenzare dalle opinioni degli altri, Ralph Waldo Emerson ci invita a fare qualcosa di molto più difficile, ma anche molto più nobile: pensare con la nostra testa, affidarci alla nostra intuizione, avere fiducia nelle nostre idee. Questo filosofo e scrittore americano dell’Ottocento, oggi poco ricordato, ha lasciato però un messaggio che può ancora parlare alle giovani generazioni.

Emerson non scriveva in modo semplice. La sua prosa è a volte densa, piena di immagini e concetti complessi. Tuttavia, chi si prende il tempo di leggerlo con attenzione, scopre un pensiero pieno di energia, una forza che scuote e invita ad agire. Emerson credeva nell’individuo, nella possibilità che ciascuno potesse trovare dentro di sé la propria strada, senza bisogno di imitare gli altri o di seguire ciecamente le mode, le ideologie, o le autorità.

Uno dei suoi concetti più importanti è la "self-reliance", cioè la fiducia in se stessi. Per Emerson, ogni persona possiede dentro di sé una voce interiore che sa cosa è giusto. Il problema è che spesso la ignoriamo, perché abbiamo paura di essere diversi o di sbagliare. Eppure, dice Emerson, proprio questa voce è la nostra vera guida, quella che ci rende unici e autentici. Solo ascoltandola possiamo diventare ciò che siamo davvero.

In un'epoca in cui i social media spingono i giovani a conformarsi, a mostrarsi sempre felici, vincenti e "alla moda", il pensiero di Emerson suona come un invito alla libertà. Ci dice: "Non abbiate paura di essere voi stessi, anche se questo significa essere diversi. Le idee nuove, le rivoluzioni, i grandi cambiamenti nella storia sono nati da persone che hanno osato pensare in modo diverso."

Anche il poeta francese Baudelaire, non certo un pensatore ottimista, ha apprezzato Emerson, riconoscendo in lui una mente originale e profonda. Questo mostra come il suo messaggio abbia superato i confini culturali e geografici, toccando sensibilità molto diverse.

Emerson ci insegna anche ad avere un rapporto diretto con la natura, che considerava una grande maestra di verità. Non a caso, è considerato il padre del trascendentalismo, una corrente di pensiero che unisce spiritualità e amore per la natura. In tempi in cui l’ambiente è minacciato e molti giovani lottano per difenderlo, le sue parole suonano attualissime.

In conclusione, anche se Emerson non è più molto letto, il suo pensiero può offrire ancora oggi un esempio di indipendenza, autenticità e fiducia nella forza dell’individuo. Per questo motivo, vale la pena riscoprirlo. Il suo messaggio può dare coraggio a chi si sente smarrito, a chi ha paura di essere se stesso, a chi vuole costruire una vita non secondo gli schemi imposti, ma secondo la propria verità.

domenica 3 agosto 2025

F. Scott Fitzgerald e il fascino del fallimento

Introduzione

Quando si pensa al sogno americano, vengono in mente parole come successo, ricchezza, realizzazione personale. Ma alcuni scrittori hanno avuto il coraggio di mostrare l’altra faccia di questo sogno: quella del disincanto, della caduta, della solitudine. Tra questi, uno dei più emblematici è Francis Scott Fitzgerald, autore de Il grande Gatsby. La sua vita e le sue opere ruotano attorno a un tema affascinante e tragico: il fallimento. Non quello banale, fatto di pigrizia o incapacità, ma il fallimento che nasce da sogni troppo grandi, da un’illusione inseguita fino allo sfinimento.

Sviluppo

Fitzgerald nasce nel 1896 in una famiglia di origini irlandesi e cattoliche, in un’America che si stava trasformando rapidamente: la società dei consumi, i grattacieli, le automobili, le feste. Giovane brillante, sensibile e ambizioso, ottiene presto il successo con romanzi come Di qua dal Paradiso e racconti pubblicati sulle riviste più lette. Ma il suo capolavoro è Il grande Gatsby (1925), la storia di un uomo che rincorre un sogno d’amore e di successo fino all’autodistruzione.

Gatsby è ricco, elegante, ospitale, ma dietro la sua facciata perfetta si nasconde una ferita profonda: l’impossibilità di tornare indietro nel tempo, di riprendersi ciò che ha perduto. Gatsby incarna l’illusione americana: quella di poter diventare chiunque, anche a costo di mentire a se stessi. Ma il sogno si infrange, perché la realtà è più dura dei desideri. Come Gatsby, anche Fitzgerald visse un’esistenza segnata da contrasti: il successo giovanile, il matrimonio con Zelda (una donna brillante ma fragile), l’alcolismo, i debiti, la solitudine, la morte prematura a 44 anni.

Il fallimento, in Fitzgerald, non è solo economico o sociale: è esistenziale. I suoi personaggi sono spesso giovani brillanti ma inquieti, che vivono in un mondo scintillante e vuoto, dove si balla per non pensare. Ma proprio in questa tristezza elegante sta il fascino della sua scrittura: uno stile musicale, malinconico, capace di farci sentire la bellezza e il dolore di ciò che non si può afferrare.

Perché allora il fallimento esercita tanto fascino? Forse perché ci ricorda che siamo umani, che anche i sogni più luminosi possono spegnersi, e che la grandezza non sta solo nel vincere, ma anche nell’aver creduto fino in fondo a qualcosa. In questo senso, Fitzgerald ci insegna a guardare con empatia chi cade, chi perde, chi non ce la fa, ma resta comunque degno di rispetto.

Conclusione

F. Scott Fitzgerald è lo scrittore del sogno e della sua fine. Attraverso personaggi indimenticabili e una scrittura raffinata, ci parla della parte più fragile e autentica dell’essere umano. In un’epoca in cui siamo ossessionati dal successo e dall’apparenza, le sue storie ci ricordano che anche il fallimento può avere una sua nobiltà, se nasce dalla fedeltà a un ideale. E che a volte, chi ha fallito davvero, è solo chi non ha mai osato sognare.

Franco Basaglia: l’uomo che ha aperto le porte dei manicomi

Introduzione

Franco Basaglia è stato uno degli intellettuali italiani più importanti del secondo dopoguerra, e sicuramente il più influente nel campo della psichiatria. La sua battaglia per i diritti dei malati mentali non è stata solo una riforma sanitaria, ma una vera e propria rivoluzione culturale. Attraverso opere come L’istituzione negata e La maggioranza deviante, Basaglia ha denunciato con forza la violenza nascosta nelle istituzioni totali, come i manicomi, e ha lottato per restituire dignità e libertà a chi era stato escluso dalla società. Ma chi era davvero Basaglia, e cosa possiamo imparare oggi dal suo pensiero?

Sviluppo

Franco Basaglia nasce a Venezia nel 1924. Dopo la laurea in medicina e una specializzazione in psichiatria, inizia a lavorare in alcuni ospedali psichiatrici italiani. È lì che si scontra con una realtà sconvolgente: i malati vengono trattati più come detenuti che come persone, legati ai letti, isolati, spogliati della loro identità. Basaglia capisce che il problema non è solo la malattia mentale, ma il modo in cui la società reagisce ad essa. Così comincia la sua battaglia.

Nel 1961 diventa direttore del manicomio di Gorizia, dove avvia un processo radicale: abolisce le camicie di forza, apre i reparti, coinvolge i pazienti nelle decisioni. Questo esperimento è raccontato nel libro collettivo L’istituzione negata (1968), in cui Basaglia e i suoi collaboratori mostrano come il manicomio non curasse, ma annientasse la persona. La follia, per Basaglia, non era solo una questione clinica, ma anche politica: chi è diverso, chi disturba le regole del vivere comune, viene escluso, rinchiuso, dimenticato.

Nel libro La maggioranza deviante (1971), Basaglia approfondisce questo tema: la società crea delle norme su ciò che è “normale” e ciò che non lo è, e chi non rientra in queste categorie viene etichettato come deviante. Ma spesso non sono i “malati” ad avere qualcosa che non va: è la società stessa a essere ingiusta, repressiva, incapace di accogliere la diversità.

La sua idea non è quella di negare la sofferenza psichica, ma di mettere in discussione un sistema che, invece di curare, punisce e isola. Secondo Basaglia, la vera guarigione passa dal rispetto, dall’ascolto, dalla libertà. Questo pensiero porta nel 1978 all’approvazione della Legge 180, nota anche come Legge Basaglia, che abolisce i manicomi in Italia: un cambiamento epocale, il primo del genere in Europa.

Conclusione

Franco Basaglia è stato molto più di uno psichiatra: è stato un difensore dei diritti umani, un pensatore coraggioso, un uomo che ha messo in discussione il potere nascosto nelle istituzioni. Oggi, in un mondo che tende ancora a escludere chi è fragile, diverso o in difficoltà, il suo messaggio è più attuale che mai. Ci ricorda che la vera civiltà si misura da come trattiamo i più deboli, e che non può esserci salute mentale senza giustizia, rispetto e libertà.

La fine della storia secondo Fukuyama: una profezia ancora valida?

 Introduzione

Nel 1989, mentre il Muro di Berlino cadeva e l’Unione Sovietica si avviava al collasso, il politologo americano Francis Fukuyama scrisse un saggio provocatorio intitolato La fine della storia?. In seguito ampliato in un libro (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992), questo testo fece molto discutere perché sosteneva che la democrazia liberale, unita all’economia di mercato, fosse il punto d’arrivo dell’evoluzione politica dell’umanità. In altre parole, secondo Fukuyama, non ci sarebbero più stati grandi conflitti ideologici, né modelli alternativi credibili al liberalismo occidentale.

Ma oggi, a oltre trent’anni di distanza, possiamo ancora dire che Fukuyama avesse ragione? Oppure la storia ha ripreso la sua corsa?

Sviluppo

Secondo Fukuyama, la caduta del comunismo aveva segnato non solo la fine della Guerra Fredda, ma anche la fine delle grandi alternative ideologiche al modello occidentale. La democrazia liberale – con le sue elezioni, i diritti individuali e un'economia di mercato – era uscita vincitrice. Il mondo sembrava avviato verso un futuro più pacifico, con società sempre più simili tra loro.

Tuttavia, la realtà si è rivelata più complessa. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a fenomeni che mettono in discussione questa visione ottimista. Il ritorno di regimi autoritari, come la Russia di Putin o la Cina di Xi Jinping, mostra che esistono ancora modelli politici fortemente alternativi alla democrazia liberale. Inoltre, anche nei Paesi occidentali si sono diffuse forme di populismo, sfiducia verso le istituzioni e diseguaglianze crescenti che rendono fragile il legame tra democrazia e benessere.

La crisi finanziaria del 2008, la pandemia di Covid-19 e le attuali guerre (come quella tra Russia e Ucraina o i conflitti in Medio Oriente) hanno mostrato quanto il mondo sia ancora instabile e attraversato da tensioni profonde. Inoltre, molte persone oggi non si sentono rappresentate dai partiti tradizionali e non percepiscono più la democrazia come una garanzia di giustizia sociale. L’economia di mercato, se lasciata senza regole, tende a creare disparità, esclusione e sfruttamento.

Conclusione

Possiamo allora dire che Fukuyama si sia sbagliato? In parte sì, ma non del tutto. La democrazia e il mercato rimangono modelli forti e desiderabili per molti popoli, ma non sono perfetti né irreversibili. La "fine della storia" forse non è mai arrivata: la storia continua, piena di conflitti, sorprese e sfide globali. Oggi più che mai, democrazia e mercato vanno difesi e riformati, per evitare che si svuotino o degenerino. Il futuro non è scritto, e spetta alle nuove generazioni – anche a noi studenti – capire come renderlo più equo, più sostenibile e più umano.

La distruzione creatrice: il motore ambivalente del capitalismo secondo Schumpeter

Introduzione

Nel cuore del capitalismo non agisce solo la logica del profitto, ma anche una forza più profonda, turbolenta e paradossale: quella che l’economista austro-americano Joseph Schumpeter ha definito “distruzione creatrice”. Con questa espressione, coniata nella sua opera Capitalismo, Socialismo e Democrazia (1942), Schumpeter intendeva il processo incessante attraverso il quale l’innovazione tecnologica e imprenditoriale distrugge vecchi equilibri economici per crearne di nuovi. Non si tratta dunque di un’eccezione al funzionamento del sistema capitalistico, ma del suo stesso principio dinamico e generativo.

Sviluppo

Per Schumpeter, la vera forza motrice del progresso economico non è la concorrenza tra aziende simili, bensì l’arrivo dell’imprenditore innovatore che rompe gli schemi esistenti: inventa un nuovo prodotto, adotta un metodo di produzione più efficiente, o apre un mercato finora inesplorato. Così facendo, mette fuori gioco imprese e modelli ormai obsoleti, provocando un trauma economico e sociale, ma anche generando un balzo in avanti.

L’esempio più emblematico di questo processo è forse la rivoluzione industriale: l’introduzione del telaio meccanico ha distrutto il lavoro artigianale tradizionale, ma ha anche reso possibile la produzione su larga scala e una nuova organizzazione del lavoro. Analogamente, oggi vediamo come le piattaforme digitali abbiano spazzato via interi settori (videoteche, agenzie di viaggio, negozi fisici), imponendo un nuovo paradigma economico.

La distruzione creatrice, però, non è un processo indolore. Dietro ogni innovazione vincente si celano fallimenti, disoccupazione, crisi d’identità professionale. Schumpeter non nega questi effetti collaterali: li accetta come “costo inevitabile” del progresso capitalistico. In questo senso, la sua visione è meno ottimistica rispetto a quella dell’economia neoclassica, che tende a vedere l’innovazione come un fenomeno lineare e benefico per tutti.

Le implicazioni politiche della teoria sono tutt’altro che neutre. Schumpeter riteneva che, alla lunga, il successo stesso del capitalismo avrebbe minato le condizioni culturali e sociali che lo avevano reso possibile: la borghesia innovatrice sarebbe stata soppiantata da una burocrazia razionale e priva di slancio creativo, aprendo la strada a forme di socialismo amministrativo. La distruzione creatrice, insomma, porterebbe in sé non solo la forza del rinnovamento, ma anche il seme della crisi del sistema.

Conclusione

La teoria della distruzione creatrice di Schumpeter ha il merito di cogliere il carattere profondamente instabile, ambivalente e trasformativo del capitalismo. In un’epoca come la nostra, segnata dalla transizione digitale, dalla crisi climatica e dall’automazione, essa appare più attuale che mai. Le società moderne sono chiamate a gestire gli effetti dirompenti dell’innovazione senza soffocarne lo slancio, ma nemmeno lasciando che il mercato agisca come una forza cieca e distruttiva. Comprendere Schumpeter oggi significa accettare che ogni progresso ha un prezzo, e che l’equilibrio tra creazione e distruzione va cercato non solo nell’economia, ma anche nella politica e nella cultura.