venerdì 13 giugno 2025

Ferita narcisistica e femminicidio: oltre i luoghi comuni

Quando si parla di femminicidio, il dibattito pubblico si rifugia spesso in spiegazioni generiche e rassicuranti: il patriarcato, la cultura del possesso, la violenza sistemica. Sono letture legittime, ma parziali. Per comprendere fino in fondo cosa spinge un uomo a uccidere la propria compagna, è necessario scavare più a fondo, nelle pieghe più oscure della psiche maschile e delle dinamiche relazionali contemporanee.

Dietro molti femminicidi si nasconde una ferita narcisistica profonda. L’uomo non regge il crollo dell’immagine idealizzata di sé che si era costruito, spesso con fatica, e che viene incrinata da un gesto, una parola, un rifiuto della partner. Può essere un abbandono, una critica pungente, o una svalutazione percepita come umiliante. In questi casi, la reazione non è razionale, ma esplosiva. L’uccisione non è frutto di un desiderio lucido di dominio, ma di un corto circuito identitario: è l’annientamento simbolico di chi ha smascherato l’insufficienza del carnefice.

Questa spiegazione, che ha solide basi nella psicologia del narcisismo patologico, è spesso ignorata perché urta con una narrazione politicamente corretta che dipinge la vittima sempre come figura passiva e l’aggressore come semplice prodotto di un sistema patriarcale. Ma le relazioni sono più complesse. E se è giusto difendere la vittima, è anche giusto cercare di capire fino in fondo cosa scatena la furia distruttiva in certi uomini.

In modo molto soft ma onesto, va riconosciuto che in alcune dinamiche relazionali moderne si è diffusa un’aspettativa femminile verso l’uomo spesso idealizzante, perfezionista, alimentata talvolta da certe derive del femminismo radicale. Si chiede all’uomo di essere forte ma vulnerabile, sicuro ma sensibile, ambizioso ma accogliente. Non tutti reggono questa pressione. E quando si sentono giudicati o inadeguati, alcuni reagiscono con il silenzio, altri con la fuga, altri ancora, nei casi più estremi, con la violenza.

Questo non significa colpevolizzare la donna, ma riconoscere che anche il perfezionismo affettivo, l’intransigenza emotiva, l’incapacità di accogliere l’altro nella sua imperfezione possono diventare fattori di rischio. Le relazioni non dovrebbero essere palestre di prestazione, ma luoghi di reciproca umanità.

Educare all’affettività non significa solo dire agli uomini di non essere violenti, ma anche aiutarli a riconoscere e gestire le proprie fragilità narcisistiche. E insegnare a tutti che l’amore maturo è quello che lascia spazio all’imperfezione, alla delusione, alla verità dell’altro. Solo così si può prevenire la tragedia, prima che esploda.

La devianza: un tema ancora attuale nella società contemporanea

Nel corso del Novecento, in particolare negli anni Settanta e Ottanta, la devianza è stata al centro di molte riflessioni sociologiche e culturali. Si trattava di comprendere perché alcune persone violassero le regole sociali e che ruolo avesse la società nella definizione di ciò che era “normale” e ciò che era “deviato”. Ma oggi, in un mondo così diverso da quello di allora, ha ancora senso parlare di devianza?

La risposta è sì: la devianza resta un tema attuale, ma deve essere letta con occhi nuovi. In primo luogo, è importante capire che non esiste un’unica definizione di devianza: essa indica qualsiasi comportamento che si discosta dalle norme condivise in una determinata società. Tuttavia, le norme cambiano nel tempo e nello spazio: ciò che un tempo era considerato inaccettabile (come il divorzio, i tatuaggi o l’omosessualità) oggi è spesso pienamente accettato o addirittura valorizzato.

In secondo luogo, oggi esistono nuove forme di devianza che non possono essere ignorate. Pensiamo al cyberbullismo, al revenge porn, agli atti di odio online, alle truffe digitali: sono comportamenti devianti che si sviluppano nel mondo virtuale, ma che hanno conseguenze molto concrete. La sociologia deve aggiornare le sue categorie per comprendere questi fenomeni.

Inoltre, è fondamentale ricordare che la devianza non dipende solo da chi trasgredisce, ma anche da chi definisce le regole. Come affermano alcuni sociologi, non esiste un comportamento deviato in sé, ma solo un comportamento che qualcuno definisce tale. In questo senso, parlare di devianza significa anche interrogarsi sul potere: chi decide cos’è “normale”? Chi ha l’autorità per stabilire cosa si può fare e cosa no?

Infine, non tutta la devianza è negativa. In alcuni casi, la devianza può essere un atto di libertà o di giustizia. Basti pensare a coloro che hanno disobbedito a leggi ingiuste per difendere i diritti umani o per protestare contro discriminazioni e abusi. Anche molti movimenti sociali sono nati come forme di devianza rispetto all’ordine stabilito.

In conclusione, la devianza non è un concetto superato. Al contrario, è uno strumento utile per comprendere le trasformazioni della società e per riflettere sul rapporto tra individuo e regole. In un’epoca in cui le norme cambiano rapidamente e in cui la libertà personale convive con nuove forme di controllo, studiare la devianza significa interrogarsi su chi siamo e su quale tipo di società vogliamo costruire.

Quando l’amore diventa una gabbia: le illusioni che fanno male

A volte l’amore non basta. Può sembrare una frase dura, ma è una verità che molti ragazzi e ragazze scoprono tardi, quando una relazione che sembrava perfetta si trasforma in un campo di tensione, di giudizi, di pressioni silenziose. L’amore, per essere sano, ha bisogno di libertà, ascolto, e accettazione reciproca. Ma spesso, nelle relazioni, ci si innamora più dell’idea dell’altro che dell’altro in carne e ossa.

Può capitare che uno dei due idealizzi il partner: lo vede forte, sicuro, sempre all’altezza delle aspettative. Lo ammira, lo mette su un piedistallo. Ma quando questa immagine viene scalfita da una fragilità, da un fallimento, da un limite umano, tutto l’equilibrio si rompe. Il partner idealizzato, sentendosi messo alla prova o giudicato, può reagire con frustrazione, insicurezza, o addirittura con rabbia. In alcuni casi estremi, queste emozioni mal gestite degenerano in comportamenti aggressivi.

Anche l’altro lato della medaglia è pericoloso. Se si ama qualcuno solo a condizione che corrisponda al modello perfetto che ci siamo costruiti — che sia forte, brillante, sempre disponibile — allora non si sta amando una persona reale, ma un’immagine. E quando quella persona esprime un lato debole o diverso, può sentirsi rifiutata o non accolta. In queste condizioni, la relazione può diventare una gabbia, anziché un rifugio.

Soprattutto tra i giovani, dove l’identità è ancora in costruzione, l’amore può diventare un modo per sentirsi “giusti”, “confermati”, “di valore”. Ma se l’altro non ci permette di essere noi stessi, con le nostre incertezze, ansie o desideri, allora l’amore diventa una fonte di dolore, invece che di crescita.

È importante imparare a distinguere un amore che nutre da uno che consuma. Un amore sano lascia spazio all’imperfezione, al dialogo, alla possibilità di sbagliare. Un amore malato, invece, impone, giudica, controlla. In casi estremi, può anche trasformarsi in violenza.

Per questo è fondamentale educarsi — e educare — alla consapevolezza affettiva. Riconoscere i segnali di disagio, ascoltare l’altro senza pretendere che sia perfetto, imparare a comunicare i propri limiti senza vergogna. Solo così si può costruire una relazione vera, in cui nessuno debba fingere o reprimere ciò che è.

Il fenomeno “incel”: frustrazione maschile, misoginia e reazione al neofemminismo

Negli ultimi anni ha acquisito crescente visibilità il fenomeno degli incel, abbreviazione di involuntary celibates, ovvero “celibi involontari”. Si tratta di un movimento, nato principalmente online, composto in larga parte da uomini eterosessuali che si definiscono incapaci di instaurare relazioni affettive o sessuali con le donne. Sebbene le ragioni personali e psicologiche dietro questo disagio siano complesse e differenti da individuo a individuo, il discorso collettivo che molti incel condividono e alimentano sui forum digitali è spesso fortemente misogino, vittimista e aggressivo.

Alla base dell’identità incel c’è una visione rigidamente gerarchica delle relazioni tra i sessi. Secondo la loro narrativa, solo una piccola percentuale di uomini fisicamente attraenti — definiti “Chad” — riuscirebbe a ottenere l’attenzione delle donne, mentre tutti gli altri sarebbero condannati a una solitudine ingiusta e umiliante. Le donne, a loro volta, vengono spesso descritte come ipergame (cioè attratte solo da uomini di status superiore), manipolatrici e superficiali. In questo modo, invece di riflettere criticamente su sé stessi, molti incel finiscono per incolpare l’intero genere femminile della propria infelicità.

Ma il fenomeno incel non è solo un’espressione di disagio esistenziale: è anche, probabilmente, una reazione sociale e culturale alle trasformazioni avvenute nel rapporto tra i sessi nell’ultimo secolo. In particolare, sembra configurarsi come un contraccolpo rispetto ai progressi del femminismo, in particolare nella sua versione più recente e radicale. L’emancipazione delle donne, il loro crescente accesso all’istruzione, al lavoro e all’autodeterminazione sessuale, ha messo in discussione i ruoli tradizionali maschili, generando in alcuni uomini una crisi di identità e di potere.

La società patriarcale, che per secoli ha assegnato agli uomini il ruolo di dominatori e alle donne quello di subordinate, non è crollata senza conseguenze. Per alcuni, il nuovo equilibrio è fonte di libertà e parità. Per altri, invece, rappresenta una minaccia. Gli incel fanno parte di questa seconda categoria: si sentono “spodestati” da un mondo in cui le donne non dipendono più dagli uomini, né economicamente né sessualmente. Il risultato è un mix tossico di nostalgia per il passato, risentimento verso il presente e odio verso l’altro sesso.

È importante sottolineare che non tutti coloro che provano frustrazione affettiva o sessuale sono incel. Il passaggio che trasforma una sofferenza individuale in un’ideologia pericolosa avviene quando si smette di cercare soluzioni costruttive e si inizia a cercare colpevoli esterni, demonizzando l’altro. Alcuni incel, purtroppo, sono arrivati a compiere atti estremi, come attentati o omicidi, motivati dall’odio contro le donne. Anche per questo il fenomeno non può essere sottovalutato o derubricato a semplice espressione di disagio giovanile.

In conclusione, il movimento incel appare come una forma di regressione e di difesa identitaria da parte di uomini che non riescono ad accettare i cambiamenti avvenuti nella condizione femminile. La lotta per l’uguaglianza di genere, infatti, non ha solo liberato le donne da molti vincoli sociali, ma ha anche costretto gli uomini a ridefinirsi. Alcuni lo hanno fatto, altri resistono con rabbia. È nostro compito, come cittadini e studenti, comprendere le radici di queste reazioni e contrastarne gli esiti più pericolosi, promuovendo una cultura del rispetto reciproco e dell’ascolto.

giovedì 12 giugno 2025

Immagina la tua vita da vecchio


Quando si ha quindici, diciassette o anche vent'anni, la vecchiaia sembra una terra lontanissima, quasi un pianeta sconosciuto. I vecchi appaiono spesso stanchi, lenti, fuori tempo. A volte fanno tenerezza, altre volte mettono malinconia. Ma raramente ci si immagina vecchi. O se lo si fa, è con un certo terrore, pensando alla solitudine, alle malattie, alla perdita di senso. Come se la vita, dopo una certa età, fosse solo attesa. Un lento spegnersi.


Eppure non è così. Non sempre.


Provo a immaginare la mia vecchiaia, non come una condanna, ma come una nuova stagione. Magari più silenziosa, certo più fragile nel corpo, ma anche più libera. Una stagione in cui si smette finalmente di dover dimostrare qualcosa agli altri. In cui ci si può concedere di essere se stessi. Di scegliere ciò che davvero conta. Di lasciare andare il superfluo.


Penso che da vecchio mi piacerebbe leggere, scrivere, camminare nella natura. Avrei più tempo per riflettere, per osservare le cose con calma, per ascoltare il silenzio. Avrei meno fretta, meno rumore attorno, meno ruoli da interpretare. Mi piacerebbe circondarmi solo di chi mi riconosce per ciò che sono. Non avrei più bisogno di piacere a tutti. Forse scoprirei lati nuovi di me stesso, persino più veri. Perché si cambia anche a settant'anni. E a volte, proprio allora, si comincia a capire davvero chi si è.


La vecchiaia può essere anche un tempo di gioie sottili, di libertà nuova, di scoperta. Lontani dalla pressione sociale, ci si può permettere di essere più autentici, più essenziali. Si può ridere con più leggerezza, ammettere i propri errori senza vergogna, e imparare ancora. Sì, perché anche da vecchi si impara. Forse con più lentezza, ma con più profondità. E se il corpo a volte tradisce, lo sguardo sul mondo può diventare più acuto, più comprensivo, meno giudicante.


Non è vero che la vecchiaia sia solo un deserto. Può essere un tempo pieno. Di cose piccole, di gratitudine, di consapevolezza. Può essere il completamento, mai del tutto finito, di sé stessi. Un tempo in cui, finalmente, si ha il permesso di essere umani.


E forse, immaginandola così, ha meno senso averne paura.

mercoledì 11 giugno 2025

NEET: un capitale umano da non sprecare


In Italia e in molti altri paesi, esiste una fascia di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studia, non lavora e non è inserita in percorsi di formazione. Vengono chiamati NEET (Not in Education, Employment or Training). Spesso se ne parla con toni negativi, come se si trattasse di persone pigre o disinteressate al proprio futuro. Ma è davvero così semplice?


Dietro al fenomeno dei NEET si nasconde qualcosa di molto più complesso. In molti casi, questi ragazzi e ragazze non hanno perso la voglia di costruirsi un domani: semplicemente, non vedono la strada. Alcuni vivono in contesti familiari difficili, altri si trovano in zone d’Italia (o del mondo) dove mancano le opportunità, le infrastrutture e il lavoro. Altri ancora soffrono di disagi psicologici non riconosciuti, come ansia, depressione o senso di inadeguatezza, e si sentono sopraffatti da un mondo che chiede sempre di essere “vincenti”.

C'è anche chi si è chiuso in una visione nichilista, rifiutando un sistema che appare falso, corrotto, ingiusto. Alcuni giovani, infatti, non sono “assenti” perché non hanno idee, ma proprio perché le hanno: idee forti, spesso di rifiuto radicale, che li spingono a isolarsi o a rinunciare a cercare un posto nella società. Tuttavia, anche questa rabbia, anche questo rifiuto, sono segni di vita. Sono la prova che dietro il silenzio, dietro il vuoto apparente, esiste un’energia che può essere trasformata.


Un ragazzo che oggi è un NEET potrebbe diventare, con il giusto aiuto, un artista, un tecnico, un infermiere, un imprenditore o semplicemente un buon cittadino. È un capitale umano che la società non può permettersi di ignorare. Non solo per ragioni economiche, ma per una questione etica: ogni giovane che si perde è una sconfitta collettiva. Ogni potenzialità inespresso è una ferita al futuro.


Per questo, servono politiche coraggiose, capaci di ascoltare questi giovani, di intercettarli, di motivarli, di offrire loro occasioni reali. Serve più orientamento nelle scuole, più supporto psicologico, più investimenti nei territori svantaggiati, più educazione alla speranza. E serve anche un cambio di sguardo da parte degli adulti: meno giudizio, più comprensione.


I NEET non sono "falliti". Sono spesso giovani in attesa. In attesa di un senso, di una fiducia, di una chiamata. La società ha il dovere di rispondere. Perché in ognuno di loro, magari nascosta sotto il peso dell’apatia o del dolore, brilla una scintilla che può ancora accendersi.

lunedì 9 giugno 2025

Freud e la psicoanalisi: un’eredità preziosa ma oggi superata


Sigmund Freud è stato senza dubbio uno degli intellettuali più influenti del Novecento. Le sue idee hanno rivoluzionato il modo di pensare alla mente umana, introducendo concetti come l’inconscio, il sogno come via d’accesso ai desideri nascosti, e la rimozione come meccanismo di difesa. Inoltre, va riconosciuto che Freud era anche un grande scrittore: i suoi testi sono eleganti, pieni di immagini potenti e capaci di coinvolgere il lettore.

Tuttavia, è importante non cadere nell’errore di considerare le teorie freudiane come verità assolute e definitive. La psicoanalisi di Freud si basa su un modello molto semplice e lineare della psiche, che oggi appare superato. Freud immaginava la mente come un sistema “idraulico”, dove le emozioni e le pulsioni si accumulano e devono essere scaricate per non creare problemi. Questo modello funziona come una metafora efficace, ma non corrisponde più a quello che sappiamo oggi grazie alla scienza moderna.

La fisica del Novecento, con la teoria della relatività e la fisica quantistica, ha mostrato che il mondo non è mai così prevedibile e lineare come sembrava. Anche la scienza della mente si è evoluta moltissimo: oggi sappiamo che il cervello e la mente sono sistemi complessi, dinamici e non riducibili a semplici cause e effetti. Per esempio, il concetto di rimozione non è più visto come un meccanismo rigido e meccanico, ma piuttosto come una metafora utile per descrivere come spesso tendiamo a evitare o dimenticare ricordi dolorosi.

Ciò non significa che Freud non abbia lasciato un’eredità importante. Le sue intuizioni hanno aperto la strada a nuovi modi di capire noi stessi e le relazioni umane. Però, è essenziale affrontare le sue teorie con spirito critico, sapendo distinguere ciò che resta valido come spunto culturale o letterario, da ciò che invece è stato superato da nuove scoperte e approcci scientifici.

In conclusione, Freud rimane una figura chiave nella storia delle idee, ma la sua psicoanalisi va considerata con attenzione e aggiornamento, evitando di trasformarla in un dogma. Solo così possiamo apprezzarne davvero il valore, senza rimanere ancorati a una visione del mondo che oggi sappiamo troppo semplicistica.