mercoledì 21 maggio 2025

Le istituzioni totali: protezione o prigione?

 


Le istituzioni totali sono strutture chiuse in cui le persone vivono separate dal resto della società e condividono tutte le attività quotidiane con un gruppo ristretto di individui. Ne sono esempi i manicomi, le carceri, le caserme, i collegi e alcuni ospedali. Questo concetto è stato studiato dal sociologo Erving Goffman, che ha mostrato come queste istituzioni abbiano un forte impatto sulla personalità di chi vi è rinchiuso.

Secondo Goffman, le istituzioni totali annullano l'identità individuale. Chi vi entra perde parte della propria libertà, dei propri ruoli sociali e viene spogliato anche simbolicamente (si pensi alla divisa uguale per tutti, o alla perdita del nome sostituito da un numero). Le regole sono rigide e chi trasgredisce viene punito. L’obiettivo è spesso quello di “rieducare” o controllare i comportamenti.

Da un lato, queste istituzioni possono sembrare utili: garantiscono ordine, sicurezza e cura per chi ne ha bisogno. Ad esempio, una casa di cura può proteggere persone fragili, e un carcere può isolare chi ha commesso gravi reati. Tuttavia, dall’altro lato, esse possono trasformarsi in luoghi disumanizzanti, dove la persona smette di essere trattata come un individuo e diventa solo “un ospite”, “un paziente”, “un detenuto”.

Per questo motivo, molti esperti oggi sostengono che le istituzioni totali andrebbero superate o profondamente trasformate. È importante che ogni persona, anche se fragile o colpevole, venga trattata con rispetto e mantenga il diritto a decidere almeno su alcuni aspetti della propria vita.

In conclusione, le istituzioni totali pongono una sfida importante alla società: proteggere senza opprimere, curare senza cancellare l’identità. Solo trovando un equilibrio si potrà garantire una vera giustizia e una vera umanità.

Riferimenti bibliografici:

E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Torino, Einaudi, 2010

lunedì 19 maggio 2025

Persone orizzontali e persone verticali: due modi di vivere

Nella vita ci sono persone che cercano di adattarsi, di andare d’accordo con tutti, di vivere serenamente nel presente. E poi ce ne sono altre che sembrano sempre in cerca di qualcosa di più: un significato, una verità, un senso profondo. Alcuni pensatori chiamano queste due tendenze “orizzontale” e “verticale”. Non si tratta di una classificazione scientifica, ma di una metafora utile per capire due modi molto diversi di stare al mondo.

Le persone orizzontali sono quelle che si muovono bene nella vita quotidiana. Amano la compagnia, sanno godersi il momento, cercano l’equilibrio. Spesso sono pratiche, positive, adattabili. Non sentono il bisogno di interrogarsi troppo su ciò che non si vede o non si può cambiare. Per loro, la felicità sta nel vivere bene il presente e costruire relazioni serene con gli altri.

Le persone verticali, invece, sono spesso più solitarie, riflessive, inquieti. Non si accontentano di ciò che appare in superficie: vogliono andare a fondo, capire, scoprire chi sono davvero. Si pongono domande difficili, si sentono “diverse”, a volte persino fuori posto in un mondo che sembra correre senza fermarsi mai. La loro forza è la profondità, ma il loro rischio è l’isolamento.

È importante dire che nessuno è solo verticale o solo orizzontale. Ognuno ha in sé entrambe le dimensioni, ma con un equilibrio diverso. C’è chi vive quasi sempre nella concretezza e chi, invece, si perde spesso nei pensieri. Entrambi i modi hanno valore. L’orizzontalità aiuta a vivere insieme agli altri, a lavorare, ad amare la vita semplice. La verticalità permette di non vivere “a occhi chiusi”, di cercare un senso personale e autentico all’esistenza.

Il problema nasce quando una delle due dimensioni prende completamente il sopravvento. Chi vive solo in orizzontale rischia di diventare superficiale, vuoto, incapace di affrontare le crisi. Chi vive solo in verticale può diventare cupo, solitario, incapace di godersi le piccole gioie della vita.

Forse il segreto sta nel trovare un equilibrio: restare con i piedi per terra, ma senza smettere di alzare lo sguardo. Essere capaci di ridere, ma anche di riflettere. Amare il presente, ma non perdere il desiderio di capire cosa c’è oltre. In questo equilibrio, forse, si trova una forma di maturità. E forse anche una via per essere davvero se stessi.

venerdì 16 maggio 2025

Il dolore non è solo un nemico. Può diventare una forza creativa

 Nella società di oggi si parla spesso di disagio psicologico tra i giovani: ansia, depressione, isolamento sociale. Molti adulti, giornalisti e persino intellettuali giudicano tutto questo come un “segno di debolezza”, un sintomo di una generazione viziata, troppo sensibile e poco abituata alla fatica. Ma è davvero così?

Forse è ora di cambiare prospettiva.

Certo, soffrire non è mai bello. Ma non è detto che il dolore sia solo un male. In molte tradizioni filosofiche e psicologiche, la crisi interiore è stata vista come il punto di partenza per una crescita. James Hillman, uno dei più importanti psicologi del ‘900, ha detto che non è dalla normalità che nasce qualcosa di nuovo, ma dal “sintomo”, da ciò che disturba e rompe l’equilibrio. Secondo lui, la sofferenza può essere una vocazione nascosta, una richiesta dell’anima di essere ascoltata e trasformata.

Anche nella storia dell’arte e del pensiero troviamo molti esempi di persone che hanno trasformato il loro dolore in bellezza. Michelangelo, uno dei più grandi artisti del Rinascimento, era spesso tormentato e malinconico. Marsilio Ficino, filosofo del Quattrocento, parlava apertamente della sua depressione. E più vicini a noi, scrittori come Virginia Woolf, poeti come Sylvia Plath, musicisti come Kurt Cobain hanno saputo esprimere, attraverso la loro arte, il peso delle loro emozioni più profonde.

Questo non significa che il dolore vada cercato o idealizzato. Ma che può essere ascoltato, attraversato, e forse anche trasformato.

Per farlo servono due cose: tempo e spazio sicuro. Serve tempo per capire cosa ci sta accadendo, e uno spazio – interiore o relazionale – dove non ci si senta giudicati, dove ci sia la possibilità di esprimersi. La scuola, gli amici, gli adulti, dovrebbero imparare a non vedere nel disagio solo qualcosa da correggere in fretta, ma anche un’opportunità per capire meglio sé stessi.

Non è facile convivere con l’ansia, la tristezza o il senso di inadeguatezza. Ma chi li ha vissuti in profondità, spesso sviluppa una maggiore sensibilità, una capacità di empatia, una creatività che altrimenti non sarebbero emerse. Non tutti i fiori nascono al sole: alcuni germogliano nell’ombra.

In un mondo che ci vuole sempre felici, produttivi e performanti, può essere rivoluzionario fermarsi, sentire il proprio dolore e trasformarlo in qualcosa di autentico. In arte. In pensiero. In crescita.

Apollineo e dionisiaco: perché la realtà non si lascia catturare solo dalla ragione


Viviamo in un tempo in cui la conoscenza è a portata di mano. Grazie alla scuola, alla scienza, alla tecnologia e ai mezzi di comunicazione, possiamo spiegare molti fenomeni della natura, della società e perfino della mente umana. Questa capacità di comprendere e ordinare il mondo è una conquista straordinaria. È ciò che i Greci chiamavano apollineo, in onore del dio Apollo: simbolo di chiarezza, misura, armonia, razionalità.

Tuttavia, c’è un rischio in tutto questo: abituarsi a pensare che ciò che non si può spiegare logicamente non abbia valore. Che l’unica realtà vera sia quella che possiamo analizzare, catalogare, definire. Eppure, chiunque abbia vissuto un forte turbamento emotivo, un’esperienza artistica intensa, un sogno che lascia senza parole, o anche solo un momento di vertigine davanti alla bellezza o al dolore, sa che esiste qualcosa che sfugge alle spiegazioni.

C’è una parte della realtà – e dell’essere umano – che è misteriosa, ambigua, contraddittoria. I Greci la chiamavano dionisiaca, dal dio Dioniso: simbolo di estasi, caos creativo, perdita del controllo, immersione nei sentimenti e nell’inconscio. Questa parte non si può racchiudere in una formula o in una definizione. È viva, disordinata, eppure profondamente vera.

Molti studiosi, intellettuali e personaggi pubblici tendono invece a restare solo sul piano apollineo: quello della logica, della correttezza formale, delle spiegazioni razionali. Ma così facendo rischiano di offrire una visione parziale del mondo. Finiscono per aderire a narrazioni già pronte, rassicuranti, e si allineano al pensiero dominante, rinunciando a esplorare ciò che non è prevedibile o facilmente dicibile.

Eppure, se vogliamo davvero conoscere noi stessi e il mondo, dobbiamo accettare anche il lato dionisiaco della vita: quello fatto di dubbi, emozioni forti, esperienze che ci mettono in crisi. Solo integrando queste due dimensioni – ordine e caos, luce e ombra – possiamo diventare persone più complete, critiche e autentiche.

In conclusione, la realtà non è fatta solo di ciò che possiamo capire razionalmente. C’è un’“abbondanza del reale” che non si lascia catturare dalle sole spiegazioni logiche. Per questo è importante non accontentarsi delle risposte facili, ma restare aperti anche al mistero, all’ambiguità, alla complessità dell’esistenza. Non è un limite: è ciò che rende la vita degna di essere vissuta e esplorata.


giovedì 15 maggio 2025

Intersoggettività o interdipendenza? Due modi diversi di stare in relazione

Oggi si parla molto di relazioni: tutti vogliono amare ed essere amati, trovare qualcuno che li capisca, costruire legami profondi. Ma spesso, quello che dovrebbe renderci felici finisce per diventare fonte di fatica, di incomprensioni, di dolore. Perché?

Uno dei motivi sta nel modello dominante di relazione, chiamato interdipendenza. In questo modello, le persone si sentono responsabili dei bisogni emotivi dell’altro. C’è un continuo scambio di attenzioni, rassicurazioni, conferme. All’apparenza sembra giusto: “Io ci sono per te, tu ci sei per me”. Ma col tempo può diventare un peso. Se ogni volta che l’altro sta male io mi sento in colpa, oppure se ho bisogno di adattarmi sempre ai suoi desideri per paura di perderlo, finisco per sentirmi intrappolato. È come se l’amore diventasse un lavoro continuo, dove nessuno può davvero riposare o essere se stesso fino in fondo.

C’è però un’altra possibilità, meno conosciuta ma molto interessante: si chiama intersoggettività. È un modo diverso di vedere la relazione. Qui non si parte dall’idea che io debba “completarti” o che tu debba “riempire i miei vuoti”. Invece, si riconosce che ciascuno di noi è un soggetto, cioè una persona intera, autonoma, capace di pensare, sentire, scegliere. Due soggetti si incontrano, si ascoltano, si influenzano, ma non cercano di possedersi o controllarsi. Si rispettano nella loro differenza.

L’intersoggettività è come una danza: a volte si è vicini, a volte ci si allontana, ma si resta in relazione. Non c’è bisogno di fondersi, di sapere tutto dell’altro, di essere d’accordo su tutto. Si può amare anche senza essere identici. Anzi, è proprio il fatto che siamo diversi a rendere il rapporto vivo.

Questo modo di relazionarsi non vale solo per le storie d’amore, ma anche per le amicizie, per il rapporto con i genitori, gli insegnanti, i compagni. E persino per il rapporto con se stessi. Perché anche dentro di noi ci sono voci diverse, emozioni contrastanti, parti che vogliono cose opposte. L’intersoggettività ci insegna ad ascoltarle, a non giudicarle subito, a metterle in dialogo. Non siamo un blocco unico, ma una piccola comunità interiore che può imparare a convivere.

In un mondo che ci spinge ad avere relazioni perfette, simmetriche, dove tutto deve funzionare sempre, l’idea di un legame basato sulla libertà, sull’ascolto e sulla coesistenza delle differenze è quasi rivoluzionaria. Forse non è facile, ma può essere molto più umano. E più leggero.

lunedì 12 maggio 2025

Scegliere bene chi amare: un atto di libertà e responsabilità

 A quattordici, sedici o diciotto anni l’amore sembra una magia. Si sogna il colpo di fulmine, lo sguardo che cambia tutto, la persona che dà un senso alla nostra esistenza. È naturale, e fa parte dell’adolescenza. Ma proprio perché l’amore può essere una forza travolgente, è fondamentale imparare a viverlo con consapevolezza.

Molti adulti oggi raccontano storie di matrimoni infelici, relazioni tossiche, convivenze fallite. Talvolta si sono uniti troppo in fretta, attratti da aspetti superficiali – l’aspetto fisico, la passione, il bisogno di non sentirsi soli – senza chiedersi: “Questa persona mi fa bene? Cresco o mi spengo, accanto a lei?”.

Scegliere un partner adatto è una delle decisioni più importanti della vita. Non è solo questione di innamorarsi, ma di capire se quell’amore può tradursi in una relazione sana, duratura, capace di resistere ai momenti difficili. Per questo è utile chiedersi:

  • Mi sento rispettato/a da questa persona?

  • Posso parlare liberamente, essere me stesso/a?

  • Abbiamo valori simili su temi importanti (famiglia, futuro, fedeltà)?

  • C’è fiducia reciproca?

Non si tratta di cercare la “persona perfetta” – che non esiste – ma una persona compatibile, empatica, affidabile. Qualcuno che, pur con i suoi limiti, sappia amare senza ferire, ascoltare senza giudicare, esserci senza pretendere di possedere.

I libri ci aiutano a riflettere su questo. In Anna Karenina di Tolstoj, Anna si lascia guidare dalla passione, lasciando un marito freddo ma stabile per un amante che la fa sentire viva. Ma questa scelta la porta all’isolamento e alla disperazione. Al contrario, nel Piccolo principe di Saint-Exupéry, si impara che “è il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante”: amare è prendersi cura, restare, avere pazienza.

E se la persona giusta non arriva? O se si preferisce la libertà? Non c’è nulla di sbagliato nel rimanere single. Meglio soli che in relazioni che consumano, umiliano o prosciugano. La solitudine può essere una scelta dignitosa, temporanea o permanente, e spesso è il modo migliore per conoscersi, rafforzarsi e prepararsi, eventualmente, a un amore più sano.

L’educazione sentimentale dovrebbe essere parte della formazione di ogni giovane. Non per imporre modelli, ma per evitare le “catastrofi relazionali”: unioni frettolose, dipendenze emotive, annullamenti personali. Perché l’amore vero non è solo emozione: è anche attenzione, pazienza, rispetto, costruzione quotidiana.

Scegliere bene chi amare è un atto di libertà. Ma anche di responsabilità, verso se stessi e verso l’altro.

Romanticismo e dipendenza affettiva: quando l'amore diventa una prigione

L’amore è uno dei temi più esplorati nella letteratura, nel cinema e nella musica. Per molti adolescenti, l’amore appare come una promessa assoluta: sentirsi finalmente visti, desiderati, importanti. Non è un caso che la narrativa “romance”, quella in cui due persone si innamorano superando ostacoli e difficoltà, abbia così tanto successo, soprattutto tra le ragazze. Ma è lecito domandarsi: il romanticismo rappresentato in questi racconti parla davvero di amore? Oppure, a volte, nasconde forme di dipendenza emotiva?

Nei romanzi d’amore più noti, la protagonista femminile aspetta l’uomo giusto, spesso misterioso, sfuggente, a volte persino rude. L’amore è visto come una forza travolgente, che sconvolge la vita e dà un senso nuovo all’esistenza. In Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, questo meccanismo funziona in modo sano: i protagonisti, Elizabeth e Darcy, cambiano, maturano, e solo dopo questo cambiamento possono riconoscersi e amarsi davvero. Il lieto fine è il risultato di una crescita reciproca.

Ma non sempre l’amore narrato è così equilibrato. In Cime tempestose di Emily Brontë, Heathcliff e Catherine si amano in modo ossessivo, violento, possessivo. Il loro legame sembra più una malattia che un sentimento sano: non si ascoltano, si feriscono, e distruggono tutto ciò che li circonda. Qui, la passione è scambiata per amore, ma ciò che si vede è una profonda dipendenza emotiva.

La dipendenza affettiva è una forma di attaccamento in cui l’altro diventa l’unica fonte di benessere, autostima e senso di identità. Si tollerano l’umiliazione, la freddezza, il disinteresse, pur di non essere lasciati soli. Alcuni romanzi contemporanei, purtroppo, rafforzano questo modello. In Cinquanta sfumature di grigio, ad esempio, Christian è un uomo controllante e freddo, mentre Anastasia cerca di “salvarlo” con il proprio amore. Il messaggio implicito è che l’amore vero deve far soffrire, che per essere amate bisogna sacrificarsi. Ma questo è un messaggio pericoloso.

La realtà è che l’amore maturo non è un brivido continuo, ma un equilibrio tra desiderio, rispetto, vicinanza e libertà. Non deve distruggere, ma costruire. Alcuni romanzi propongono proprio questa visione. In La lettera d’amore di Cathleen Schine, ad esempio, il romanticismo non cancella la razionalità, e l’ironia diventa uno strumento per capire davvero cosa si prova. E in La coscienza di Zeno di Italo Svevo, l’amore viene messo in discussione in quanto parte di una più vasta ricerca di sé.

Dunque, il romanticismo è un bisogno umano legittimo, ma va distinto dalla dipendenza. Il vero amore non ci rende schiavi, non ci cancella, non ci fa soffrire perennemente. Non serve vivere relazioni tormentate per sentirsi vivi: la profondità può trovarsi anche nella quotidianità, nel rispetto reciproco e nella crescita personale.