venerdì 16 maggio 2025

Il dolore non è solo un nemico. Può diventare una forza creativa

 Nella società di oggi si parla spesso di disagio psicologico tra i giovani: ansia, depressione, isolamento sociale. Molti adulti, giornalisti e persino intellettuali giudicano tutto questo come un “segno di debolezza”, un sintomo di una generazione viziata, troppo sensibile e poco abituata alla fatica. Ma è davvero così?

Forse è ora di cambiare prospettiva.

Certo, soffrire non è mai bello. Ma non è detto che il dolore sia solo un male. In molte tradizioni filosofiche e psicologiche, la crisi interiore è stata vista come il punto di partenza per una crescita. James Hillman, uno dei più importanti psicologi del ‘900, ha detto che non è dalla normalità che nasce qualcosa di nuovo, ma dal “sintomo”, da ciò che disturba e rompe l’equilibrio. Secondo lui, la sofferenza può essere una vocazione nascosta, una richiesta dell’anima di essere ascoltata e trasformata.

Anche nella storia dell’arte e del pensiero troviamo molti esempi di persone che hanno trasformato il loro dolore in bellezza. Michelangelo, uno dei più grandi artisti del Rinascimento, era spesso tormentato e malinconico. Marsilio Ficino, filosofo del Quattrocento, parlava apertamente della sua depressione. E più vicini a noi, scrittori come Virginia Woolf, poeti come Sylvia Plath, musicisti come Kurt Cobain hanno saputo esprimere, attraverso la loro arte, il peso delle loro emozioni più profonde.

Questo non significa che il dolore vada cercato o idealizzato. Ma che può essere ascoltato, attraversato, e forse anche trasformato.

Per farlo servono due cose: tempo e spazio sicuro. Serve tempo per capire cosa ci sta accadendo, e uno spazio – interiore o relazionale – dove non ci si senta giudicati, dove ci sia la possibilità di esprimersi. La scuola, gli amici, gli adulti, dovrebbero imparare a non vedere nel disagio solo qualcosa da correggere in fretta, ma anche un’opportunità per capire meglio sé stessi.

Non è facile convivere con l’ansia, la tristezza o il senso di inadeguatezza. Ma chi li ha vissuti in profondità, spesso sviluppa una maggiore sensibilità, una capacità di empatia, una creatività che altrimenti non sarebbero emerse. Non tutti i fiori nascono al sole: alcuni germogliano nell’ombra.

In un mondo che ci vuole sempre felici, produttivi e performanti, può essere rivoluzionario fermarsi, sentire il proprio dolore e trasformarlo in qualcosa di autentico. In arte. In pensiero. In crescita.

Apollineo e dionisiaco: perché la realtà non si lascia catturare solo dalla ragione


Viviamo in un tempo in cui la conoscenza è a portata di mano. Grazie alla scuola, alla scienza, alla tecnologia e ai mezzi di comunicazione, possiamo spiegare molti fenomeni della natura, della società e perfino della mente umana. Questa capacità di comprendere e ordinare il mondo è una conquista straordinaria. È ciò che i Greci chiamavano apollineo, in onore del dio Apollo: simbolo di chiarezza, misura, armonia, razionalità.

Tuttavia, c’è un rischio in tutto questo: abituarsi a pensare che ciò che non si può spiegare logicamente non abbia valore. Che l’unica realtà vera sia quella che possiamo analizzare, catalogare, definire. Eppure, chiunque abbia vissuto un forte turbamento emotivo, un’esperienza artistica intensa, un sogno che lascia senza parole, o anche solo un momento di vertigine davanti alla bellezza o al dolore, sa che esiste qualcosa che sfugge alle spiegazioni.

C’è una parte della realtà – e dell’essere umano – che è misteriosa, ambigua, contraddittoria. I Greci la chiamavano dionisiaca, dal dio Dioniso: simbolo di estasi, caos creativo, perdita del controllo, immersione nei sentimenti e nell’inconscio. Questa parte non si può racchiudere in una formula o in una definizione. È viva, disordinata, eppure profondamente vera.

Molti studiosi, intellettuali e personaggi pubblici tendono invece a restare solo sul piano apollineo: quello della logica, della correttezza formale, delle spiegazioni razionali. Ma così facendo rischiano di offrire una visione parziale del mondo. Finiscono per aderire a narrazioni già pronte, rassicuranti, e si allineano al pensiero dominante, rinunciando a esplorare ciò che non è prevedibile o facilmente dicibile.

Eppure, se vogliamo davvero conoscere noi stessi e il mondo, dobbiamo accettare anche il lato dionisiaco della vita: quello fatto di dubbi, emozioni forti, esperienze che ci mettono in crisi. Solo integrando queste due dimensioni – ordine e caos, luce e ombra – possiamo diventare persone più complete, critiche e autentiche.

In conclusione, la realtà non è fatta solo di ciò che possiamo capire razionalmente. C’è un’“abbondanza del reale” che non si lascia catturare dalle sole spiegazioni logiche. Per questo è importante non accontentarsi delle risposte facili, ma restare aperti anche al mistero, all’ambiguità, alla complessità dell’esistenza. Non è un limite: è ciò che rende la vita degna di essere vissuta e esplorata.


giovedì 15 maggio 2025

Intersoggettività o interdipendenza? Due modi diversi di stare in relazione

Oggi si parla molto di relazioni: tutti vogliono amare ed essere amati, trovare qualcuno che li capisca, costruire legami profondi. Ma spesso, quello che dovrebbe renderci felici finisce per diventare fonte di fatica, di incomprensioni, di dolore. Perché?

Uno dei motivi sta nel modello dominante di relazione, chiamato interdipendenza. In questo modello, le persone si sentono responsabili dei bisogni emotivi dell’altro. C’è un continuo scambio di attenzioni, rassicurazioni, conferme. All’apparenza sembra giusto: “Io ci sono per te, tu ci sei per me”. Ma col tempo può diventare un peso. Se ogni volta che l’altro sta male io mi sento in colpa, oppure se ho bisogno di adattarmi sempre ai suoi desideri per paura di perderlo, finisco per sentirmi intrappolato. È come se l’amore diventasse un lavoro continuo, dove nessuno può davvero riposare o essere se stesso fino in fondo.

C’è però un’altra possibilità, meno conosciuta ma molto interessante: si chiama intersoggettività. È un modo diverso di vedere la relazione. Qui non si parte dall’idea che io debba “completarti” o che tu debba “riempire i miei vuoti”. Invece, si riconosce che ciascuno di noi è un soggetto, cioè una persona intera, autonoma, capace di pensare, sentire, scegliere. Due soggetti si incontrano, si ascoltano, si influenzano, ma non cercano di possedersi o controllarsi. Si rispettano nella loro differenza.

L’intersoggettività è come una danza: a volte si è vicini, a volte ci si allontana, ma si resta in relazione. Non c’è bisogno di fondersi, di sapere tutto dell’altro, di essere d’accordo su tutto. Si può amare anche senza essere identici. Anzi, è proprio il fatto che siamo diversi a rendere il rapporto vivo.

Questo modo di relazionarsi non vale solo per le storie d’amore, ma anche per le amicizie, per il rapporto con i genitori, gli insegnanti, i compagni. E persino per il rapporto con se stessi. Perché anche dentro di noi ci sono voci diverse, emozioni contrastanti, parti che vogliono cose opposte. L’intersoggettività ci insegna ad ascoltarle, a non giudicarle subito, a metterle in dialogo. Non siamo un blocco unico, ma una piccola comunità interiore che può imparare a convivere.

In un mondo che ci spinge ad avere relazioni perfette, simmetriche, dove tutto deve funzionare sempre, l’idea di un legame basato sulla libertà, sull’ascolto e sulla coesistenza delle differenze è quasi rivoluzionaria. Forse non è facile, ma può essere molto più umano. E più leggero.

lunedì 12 maggio 2025

Scegliere bene chi amare: un atto di libertà e responsabilità

 A quattordici, sedici o diciotto anni l’amore sembra una magia. Si sogna il colpo di fulmine, lo sguardo che cambia tutto, la persona che dà un senso alla nostra esistenza. È naturale, e fa parte dell’adolescenza. Ma proprio perché l’amore può essere una forza travolgente, è fondamentale imparare a viverlo con consapevolezza.

Molti adulti oggi raccontano storie di matrimoni infelici, relazioni tossiche, convivenze fallite. Talvolta si sono uniti troppo in fretta, attratti da aspetti superficiali – l’aspetto fisico, la passione, il bisogno di non sentirsi soli – senza chiedersi: “Questa persona mi fa bene? Cresco o mi spengo, accanto a lei?”.

Scegliere un partner adatto è una delle decisioni più importanti della vita. Non è solo questione di innamorarsi, ma di capire se quell’amore può tradursi in una relazione sana, duratura, capace di resistere ai momenti difficili. Per questo è utile chiedersi:

  • Mi sento rispettato/a da questa persona?

  • Posso parlare liberamente, essere me stesso/a?

  • Abbiamo valori simili su temi importanti (famiglia, futuro, fedeltà)?

  • C’è fiducia reciproca?

Non si tratta di cercare la “persona perfetta” – che non esiste – ma una persona compatibile, empatica, affidabile. Qualcuno che, pur con i suoi limiti, sappia amare senza ferire, ascoltare senza giudicare, esserci senza pretendere di possedere.

I libri ci aiutano a riflettere su questo. In Anna Karenina di Tolstoj, Anna si lascia guidare dalla passione, lasciando un marito freddo ma stabile per un amante che la fa sentire viva. Ma questa scelta la porta all’isolamento e alla disperazione. Al contrario, nel Piccolo principe di Saint-Exupéry, si impara che “è il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante”: amare è prendersi cura, restare, avere pazienza.

E se la persona giusta non arriva? O se si preferisce la libertà? Non c’è nulla di sbagliato nel rimanere single. Meglio soli che in relazioni che consumano, umiliano o prosciugano. La solitudine può essere una scelta dignitosa, temporanea o permanente, e spesso è il modo migliore per conoscersi, rafforzarsi e prepararsi, eventualmente, a un amore più sano.

L’educazione sentimentale dovrebbe essere parte della formazione di ogni giovane. Non per imporre modelli, ma per evitare le “catastrofi relazionali”: unioni frettolose, dipendenze emotive, annullamenti personali. Perché l’amore vero non è solo emozione: è anche attenzione, pazienza, rispetto, costruzione quotidiana.

Scegliere bene chi amare è un atto di libertà. Ma anche di responsabilità, verso se stessi e verso l’altro.

Romanticismo e dipendenza affettiva: quando l'amore diventa una prigione

L’amore è uno dei temi più esplorati nella letteratura, nel cinema e nella musica. Per molti adolescenti, l’amore appare come una promessa assoluta: sentirsi finalmente visti, desiderati, importanti. Non è un caso che la narrativa “romance”, quella in cui due persone si innamorano superando ostacoli e difficoltà, abbia così tanto successo, soprattutto tra le ragazze. Ma è lecito domandarsi: il romanticismo rappresentato in questi racconti parla davvero di amore? Oppure, a volte, nasconde forme di dipendenza emotiva?

Nei romanzi d’amore più noti, la protagonista femminile aspetta l’uomo giusto, spesso misterioso, sfuggente, a volte persino rude. L’amore è visto come una forza travolgente, che sconvolge la vita e dà un senso nuovo all’esistenza. In Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, questo meccanismo funziona in modo sano: i protagonisti, Elizabeth e Darcy, cambiano, maturano, e solo dopo questo cambiamento possono riconoscersi e amarsi davvero. Il lieto fine è il risultato di una crescita reciproca.

Ma non sempre l’amore narrato è così equilibrato. In Cime tempestose di Emily Brontë, Heathcliff e Catherine si amano in modo ossessivo, violento, possessivo. Il loro legame sembra più una malattia che un sentimento sano: non si ascoltano, si feriscono, e distruggono tutto ciò che li circonda. Qui, la passione è scambiata per amore, ma ciò che si vede è una profonda dipendenza emotiva.

La dipendenza affettiva è una forma di attaccamento in cui l’altro diventa l’unica fonte di benessere, autostima e senso di identità. Si tollerano l’umiliazione, la freddezza, il disinteresse, pur di non essere lasciati soli. Alcuni romanzi contemporanei, purtroppo, rafforzano questo modello. In Cinquanta sfumature di grigio, ad esempio, Christian è un uomo controllante e freddo, mentre Anastasia cerca di “salvarlo” con il proprio amore. Il messaggio implicito è che l’amore vero deve far soffrire, che per essere amate bisogna sacrificarsi. Ma questo è un messaggio pericoloso.

La realtà è che l’amore maturo non è un brivido continuo, ma un equilibrio tra desiderio, rispetto, vicinanza e libertà. Non deve distruggere, ma costruire. Alcuni romanzi propongono proprio questa visione. In La lettera d’amore di Cathleen Schine, ad esempio, il romanticismo non cancella la razionalità, e l’ironia diventa uno strumento per capire davvero cosa si prova. E in La coscienza di Zeno di Italo Svevo, l’amore viene messo in discussione in quanto parte di una più vasta ricerca di sé.

Dunque, il romanticismo è un bisogno umano legittimo, ma va distinto dalla dipendenza. Il vero amore non ci rende schiavi, non ci cancella, non ci fa soffrire perennemente. Non serve vivere relazioni tormentate per sentirsi vivi: la profondità può trovarsi anche nella quotidianità, nel rispetto reciproco e nella crescita personale.

mercoledì 30 aprile 2025

Vivere nell’epoca della FOMO: come difendere la propria libertà dalle pressioni sociali


Viviamo in un tempo in cui siamo costantemente connessi, aggiornati, informati su ciò che fanno gli altri. I social media ci permettono di vedere, in tempo reale, i viaggi, le feste, i successi e perfino i pranzi degli amici e dei conoscenti. In questo contesto nasce un fenomeno sempre più diffuso tra i giovani (ma non solo): la FOMO, acronimo inglese che significa Fear of Missing Out, cioè “paura di essere tagliati fuori”.

La FOMO è quella sensazione fastidiosa che proviamo quando vediamo gli altri divertirsi o vivere esperienze entusiasmanti e noi non ci siamo. Può sembrare qualcosa di banale, ma in realtà ha un forte impatto sul nostro benessere mentale. Ci spinge a controllare continuamente il telefono, a dire “sì” a eventi che non ci interessano davvero solo per non sentirci esclusi, a vivere nel confronto continuo con gli altri, spesso dimenticando cosa vogliamo davvero noi.

Secondo Patrick J. McGinnis, autore del libro FOMO Sapiens, questa paura nasce dal bisogno profondo di appartenenza che l’essere umano ha da sempre. Oggi, però, viene amplificata dalla tecnologia e da una società che ci fa sentire in perenne ritardo, come se la nostra vita fosse sempre meno interessante di quella degli altri.

È importante rendersene conto e imparare a proteggere la propria libertà. Dire di no a un’uscita perché si è stanchi o si ha voglia di leggere un libro non significa “perdere qualcosa”, ma rispettare i propri bisogni. Non essere presenti ovunque non ci rende meno validi, ma più consapevoli. Inoltre, spesso quello che vediamo online non è la realtà: è una versione selezionata e filtrata, pensata per apparire perfetta.

Per superare la FOMO, serve imparare a scegliere. Scegliere ciò che ci fa stare bene davvero, senza inseguire approvazione o visibilità. Serve anche coltivare la presenza: quando siamo con qualcuno, spegnere il telefono, ascoltare davvero, vivere quel momento. È così che torniamo padroni del nostro tempo e della nostra attenzione.

In conclusione, la FOMO è una trappola moderna che colpisce molti giovani e può condizionare la loro vita quotidiana. Ma possiamo liberarcene, imparando a conoscerla, a riconoscere il suo effetto su di noi e a scegliere consapevolmente come vogliamo vivere. Perché essere liberi oggi non significa avere tutto, ma sapere cosa ci basta.

domenica 27 aprile 2025

Viviamo troppo in fretta? Riflessioni sull'accelerazione del tempo nella società moderna

Nella società di oggi, tutto sembra correre. Le tecnologie ci permettono di comunicare istantaneamente, di viaggiare velocemente, di svolgere mille attività in poche ore. Sembrerebbe una conquista straordinaria. Eppure, sempre più persone provano una sensazione di stress, di fatica e di vuoto. È come se, nonostante il progresso, ci sentissimo meno padroni della nostra vita.

Il sociologo tedesco Hartmut Rosa ha cercato di capire questo paradosso, e ha sviluppato una teoria affascinante: la teoria dell'accelerazione sociale.

Secondo Rosa, nella modernità non possiamo più permetterci di "stare fermi". Per restare al passo, dobbiamo continuamente accelerare: imparare nuove competenze, cambiare abitudini, adattarci a nuove tecnologie. È un po' come correre su un tapis roulant: se smetti di muoverti, cadi. Questo fenomeno si chiama stabilizzazione dinamica: per mantenere la nostra posizione, dobbiamo accelerare sempre di più.

Ma questa corsa senza fine ha un prezzo. Rosa sostiene che l'accelerazione provoca alienazione: ci sentiamo estranei ai luoghi che abitiamo, agli oggetti che consumiamo in fretta, persino alle persone che incontriamo. Il tempo, invece di essere vissuto intensamente, diventa qualcosa da gestire, da ottimizzare. Non "viviamo" il tempo, ma lo "corriamo". Le nostre giornate si riempiono di attività, ma spesso ci manca la sensazione di vivere esperienze davvero significative.

Un altro paradosso osservato da Rosa è che, nonostante le invenzioni che dovrebbero "liberarci" tempo (pensiamo agli smartphone o ai treni ad alta velocità), in realtà ci sentiamo sempre più schiacciati dalle urgenze. È come se, liberato un momento, lo riempissimo immediatamente con nuovi impegni, nuove aspettative.

Di fronte a tutto questo, Rosa propone una strada diversa: cercare momenti di risonanza, cioè esperienze autentiche in cui sentiamo di essere in relazione profonda con noi stessi, con gli altri o con il mondo. Può trattarsi di un'amicizia vera, della passione per uno sport, dell'ascolto di una musica che ci emoziona. Non si tratta di fermarsi completamente, ma di trovare spazi in cui la vita riprenda il suo vero significato.

Personalmente, trovo che le riflessioni di Rosa siano molto attuali, soprattutto per i giovani. Oggi ci viene chiesto di essere veloci, performanti, sempre connessi. Ma forse, come suggerisce Rosa, la felicità non sta nel correre sempre di più, bensì nel riuscire a vivere pienamente ogni esperienza. Non dovremmo aver paura di rallentare ogni tanto, di prenderci il tempo per ascoltare, per riflettere, per sentire davvero.
In fondo, non è forse questo il vero senso della vita?

Riferimenti bibliografici:

H. Rosa,  Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica della tarda modernità, Torino, Einaudi, 2015