venerdì 18 aprile 2025

La società borderline

“Viviamo in una società borderline?” La domanda, compare sempre più insistentemente negli articoli di psichiatri, psicologi, sociologi accreditati. Talvolta suona come una provocazione, ma contiene una verità che merita attenzione. In effetti, termini come “società borderline” o “società liquida” stanno sempre più entrando nel linguaggio degli esperti, soprattutto in riferimento alle trasformazioni culturali e affettive della tarda modernità.

Cosa si intende davvero con questa espressione? Non si tratta, naturalmente, di diagnosticare un’intera società con un disturbo clinico, ma di cogliere analogie tra alcuni tratti del disturbo borderline di personalità e il modo in cui oggi viviamo le relazioni, il tempo, l’identità. Incertezza, instabilità emotiva, paura dell’abbandono, difficoltà a mantenere legami duraturi: sono dimensioni che sembrano estendersi ben oltre l’ambito terapeutico, diventando esperienze comuni nella nostra quotidianità.

Il sociologo Zygmunt Bauman ha parlato di “modernità liquida” per descrivere un’epoca in cui tutto è diventato più fluido: le istituzioni, i rapporti, le certezze interiori. Anche l’amore, dice Bauman, è diventato “liquido”: spesso consumato rapidamente, all'insegna della gratificazione immediata, sostituibile, incapace di radicarsi. In questo contesto, sentirsi smarriti o instabili non è più un’eccezione, ma quasi una condizione condivisa.

Naturalmente, bisogna evitare ogni semplificazione. Le persone con struttura borderline affrontano una sofferenza autentica, spesso silenziosa, che merita rispetto e comprensione. Molte di loro riescono a condurre una vita piena, a essere efficienti, empatiche, e persino brillanti nei propri ambiti. Il problema, semmai, è che una società “borderline” nel senso culturale rischia di normalizzare l’instabilità, di rendere l’incertezza permanente una condizione inevitabile.

Questa riflessione non offre risposte definitive. Ma pone una domanda urgente: se anche la società in cui viviamo tende alla frammentazione, come possiamo coltivare un senso di sé coerente, relazioni autentiche, e un minimo di stabilità interiore? Forse è questo il compito che ci aspetta: non tanto guarire da una malattia collettiva, ma imparare a stare in piedi su un terreno sempre più mobile.


Abolire il liceo classico?


In un’epoca in cui si parla insistentemente di riforma della scuola, si fanno avanti proposte che mirano a "razionalizzare" l’istruzione, renderla più funzionale al mercato, più adatta – si dice – a rispondere alle esigenze del mondo produttivo. Tra le voci più radicali c’è quella del professor Michele Boldrin, che suggerisce senza mezzi termini l’abolizione del liceo classico e una revisione drastica dell’insegnamento della filosofia, soprattutto della sua storia.

Secondo Boldrin, la scuola dovrebbe essere costruita a misura dello studente medio, non di quello brillante, e dovrebbe limitarsi a fornire strumenti utili e misurabili. Il passato – con il suo bagaglio di cultura umanistica, di testi antichi, di speculazioni filosofiche – appare come un fardello ingombrante, persino dannoso. La storia della filosofia viene liquidata come un cumulo di follie, e si propone di sostituirla con qualche tecnica di debate e lo studio di due o tre pensatori fondamentali. Un approccio semplicistico che confonde efficienza con riduzionismo.

Ma è davvero questa la via per una scuola migliore? È davvero l’eliminazione del liceo classico o della storia della filosofia a determinare una maggiore produttività del Paese?

La verità è che la produttività stagnante italiana non dipende dalla scuola, almeno non in senso stretto. Essa affonda le radici in cause ben più profonde: una diffusa sfiducia sociale, un sistema clientelare, un apparato burocratico farraginoso, una giustizia lenta, un'ostilità alla cooperazione e un familismo che spesso soffoca l'iniziativa individuale. Si aggiunga un disprezzo culturale per il lavoro tecnico e pratico, una gerontocrazia che impedisce il ricambio generazionale e una scarsa tolleranza per il fallimento.

Tutto questo costituisce un carattere nazionale, non statico ma in continua evoluzione, forgiato nei secoli da esperienze storiche, guerre, tradizioni, adattamenti sociali. La scuola può influenzarlo, certo, ma non stravolgerlo da sola. E soprattutto: non può farlo tradendo la propria missione fondamentale, che non è quella di formare lavoratori, ma cittadini pensanti, critici, capaci di giudicare e orientarsi nel mondo.

Difendere lo studio della filosofia – e della sua storia – significa difendere l’idea che la formazione non debba esaurirsi nell’utile immediato. Leggere Platone, Kant o Nietzsche non serve a trovare lavoro in sé, ma può insegnare a vivere, a pensare, a interrogarsi sul senso delle scelte, della giustizia, del potere, della libertà. La filosofia, come la letteratura e il latino, pianta il seme della curiosità e accompagna per tutta la vita chi la incontra nel modo giusto.

Quanto al debate, è uno strumento utile, persino necessario, per sviluppare abilità retoriche e argomentative. Ma senza contenuti, senza pensiero, senza profondità maturata attraverso letture ed esperienze, rischia di diventare esercizio sterile. Come può un ragazzo, che non ha ancora vissuto abbastanza né letto i grandi, evitare di cadere nella banalità? Come può argomentare con saggezza chi non è stato educato all’ascolto delle idee altrui, anche di quelle lontane nel tempo?

Come diceva un pensatore reazionario, il compito dei giovani è invecchiare in fretta – non nel senso di diventare cinici o stanchi, ma nel senso di acquisire presto la serietà, la disciplina, la profondità di chi sa che il mondo non si improvvisa.

La scuola, insomma, non va alleggerita ma arricchita. Non deve seguire solo il mercato, ma formare coscienze capaci di trasformarlo. La vera modernizzazione non passa dall’eliminazione della cultura, ma dalla sua valorizzazione intelligente.

In questo senso, la riforma "alla Boldrin" appare miope. E rischia di lasciare un Paese ancora più povero, non solo economicamente, ma spiritualmente.

lunedì 7 aprile 2025

La bellezza: apparenza o verità?


Che cos’è la bellezza? È una domanda che, prima o poi, tutti ci poniamo. Alcuni pensano che sia solo una questione di estetica: un volto armonioso, un corpo scolpito, vestiti alla moda. Ma chi si ferma solo all’apparenza rischia di perdere qualcosa di più profondo. La vera bellezza, infatti, non si esaurisce in ciò che vediamo con gli occhi.

Viviamo in un tempo in cui le immagini dominano tutto. Social network, pubblicità, selfie, filtri: ovunque siamo bombardati da modelli di perfezione spesso irraggiungibili. Questo può creare un senso di insicurezza, come se valessimo solo per quanto siamo belli. Ma non è così. La bellezza autentica è fatta anche di difetti, di imperfezioni, di gesti, di personalità. È nella gentilezza di uno sguardo, nella forza di un’idea, nella capacità di restare sé stessi anche quando il mondo ti chiede di essere altro.

Anche la natura ci insegna che la bellezza non è solo simmetria e ordine: un albero storto può essere affascinante, un paesaggio nebbioso può toccarci più di una cartolina perfetta. Allo stesso modo, nelle persone, ciò che colpisce davvero è l’unicità. La bellezza che resta nel tempo è quella che nasce dall’equilibrio tra corpo e spirito, tra ciò che mostriamo e ciò che siamo.

Infine, è importante ricordare che la bellezza può essere anche una responsabilità. Non per conformarci agli standard, ma per prenderci cura di noi stessi, del nostro corpo e del nostro modo di stare al mondo. Volersi bene non significa inseguire la perfezione, ma imparare ad accettarsi, migliorarsi e rispettarsi.

In conclusione, la bellezza non è un concorso da vincere, ma un linguaggio da scoprire. Chi sa vedere con il cuore capisce che ciò che davvero è bello… è spesso invisibile agli occhi.

sabato 5 aprile 2025

Wanderlust: il mito del viaggio e le sue ambiguità

C’è una parola che negli ultimi anni ha conosciuto un successo straordinario: wanderlust. Di origine tedesca, indica il desiderio irresistibile di viaggiare, di muoversi, di cercare l’altrove. Ma dietro questa parola apparentemente innocente e romantica si nasconde un universo più complesso, fatto di tensioni psicologiche, illusioni culturali, ambiguità esistenziali.

Un desiderio antico, una moda moderna

Il bisogno di mettersi in cammino è antico quanto l’uomo. Dal pellegrinaggio alla fuga, dal Grand Tour settecentesco al turismo di massa, la spinta a lasciare il luogo d’origine è sempre stata intrecciata al desiderio di trasformazione. Eppure oggi il termine wanderlust si è caricato di connotazioni nuove: estetiche, esistenziali, sociali. È diventato un ideale di vita, un tratto identitario, un hashtag da esibire.

Dietro le immagini patinate dei tramonti esotici e dei viaggi zaino in spalla, si cela spesso una retorica glamour del viaggio, alimentata dai social media e da una cultura che esalta il movimento come valore in sé. Il viaggiatore è il nuovo eroe, il sedentario quasi un fallito.

Fuga dalla realtà o ricerca di sé?

Ma cosa spinge davvero così tante persone a inseguire l’altrove? In molti casi, il wanderlust si presenta come fuga dalla realtà. Il viaggio diventa una forma di evitamento: si parte per non restare, per non affrontare le relazioni in crisi, la noia del quotidiano, il peso delle responsabilità. È l’illusione che basti cambiare scenario per guarire le ferite interiori.

Freud parlava di Wandertrieb, l’impulso a vagare, come espressione di una pulsione regressiva: non tanto una voglia di conoscere, quanto il puro piacere del movimento, legato a uno stato infantile, prelogico. Non a caso, molte persone si scoprono costantemente in viaggio, ma incapaci di fermarsi, come se lo stare fermi fosse intollerabile.

Immaturità e instabilità

In alcuni casi, la passione per il viaggio può mascherare una fragilità emotiva: la difficoltà a tollerare la frustrazione, a stare nella ripetizione, a costruire legami duraturi. Il nomadismo contemporaneo diventa così l’alibi perfetto per evitare ogni forma di radicamento. Una libertà apparente che spesso cela una immaturità affettiva, un’inquietudine mai pacificata.

L’illusione terapeutica e il conformismo spirituale

“Cambiare aria fa bene”, si dice. Ma è davvero così? Il rischio è quello di proiettare all’esterno un cambiamento che dovrebbe avvenire dentro. Si parte sperando che un nuovo paesaggio risolva antichi conflitti. Ma come scriveva Emil Cioran, “non esistono esili, solo trasferimenti d’angoscia”.

In più, oggi viaggiare non è più un gesto anticonformista: è spesso l’opposto. Il wanderlust è diventato un rito collettivo, un obbligo culturale travestito da libertà. Le mete sono sempre le stesse, le immagini anche. Il viaggio si trasforma in spettacolo, e chi non parte rischia di sentirsi escluso dal racconto dominante.

Un privilegio travestito da spiritualità

Infine, vale la pena smascherare l’ipocrisia di fondo: il viaggiatore errante, che si racconta libero, ribelle e fuori dalle logiche borghesi, è spesso un prodotto della classe agiata. Il tempo, i mezzi, la possibilità di perdersi senza pagare conseguenze, sono privilegi camuffati da spiritualità.


Il mito della vacanza: un dovere più che un piacere

Strettamente legato al wanderlust è il mito moderno della vacanza obbligatoria. Una pausa che ha perso ogni spontaneità e si è trasformata in un dovere sociale da assolvere, pena l’esclusione.

“Dove vai in vacanza?” non è più solo una domanda di cortesia, ma una richiesta di rendiconto. È un modo per situare l’altro nella scala dei valori condivisi: chi va in posti esotici guadagna punti, chi resta a casa perde status. Non importa se la vacanza è stata davvero piacevole, rigenerante o significativa: ciò che conta è poterla raccontare bene.

Il paradosso è evidente: molti vivono la vacanza con l’ansia di chi deve dimostrare qualcosa, fare esperienze “uniche”, visitare luoghi “imperdibili”, postare foto “ispiranti”. È l’ennesima forma di conformismo vestito da libertà, un copione da seguire più che un bisogno da ascoltare.

E chi non parte – per scelta, per convinzione, o per difficoltà – viene percepito come “strano”, “depresso” o “sfigato”. Il diritto al silenzio, alla stasi, alla non-vacanza è diventato un tabù.


Conclusione

Il wanderlust e il mito della vacanza non sono solo modi per evadere, ma modelli imposti da una società che fatica a tollerare l’immobilità, il vuoto, la fatica del quotidiano. La vera libertà non sta nel muoversi senza sosta, né nel riempirsi di esperienze: sta nel poter scegliere, davvero, quando partire e quando restare.

Perché spesso, più che di un biglietto aereo, avremmo bisogno di uno sguardo più onesto su noi stessi.

giovedì 22 agosto 2024

Il Pensiero Rizomatico: Un modo di vedere il mondo


Immagina una pianta che cresce in tutte le direzioni, senza un tronco centrale o radici profonde che la tengano ancorata in un solo punto. Questo tipo di pianta, come il bambù o le patate, si chiama "rizoma". Il rizoma non cresce in modo lineare, ma si espande in diverse direzioni contemporaneamente, collegando parti differenti e creando una rete complessa. Questo è un ottimo modo per iniziare a comprendere il concetto di "pensiero rizomatico".


Che cos'è il pensiero rizomatico?


Il pensiero rizomatico è un'idea sviluppata dai filosofi Gilles Deleuze e Félix Guattari, che si sono chiesti se ci fosse un modo di pensare che fosse diverso dal classico pensiero gerarchico e lineare. Nella nostra vita quotidiana, siamo abituati a pensare in modo lineare: A causa di B, e quindi succede C. Questo tipo di pensiero è come un albero, con un tronco (la causa principale) e molti rami (le conseguenze o le idee che ne derivano). Tuttavia, Deleuze e Guattari ci invitano a immaginare un pensiero che funzioni più come un rizoma, senza un centro fisso e con molteplici percorsi e connessioni.


Desiderio e Macchina Desiderante


Un altro concetto chiave per capire il pensiero rizomatico è quello di "desiderio". Di solito, pensiamo al desiderio come qualcosa che ci manca e che cerchiamo di ottenere, come se fosse un oggetto che dobbiamo possedere. Deleuze e Guattari, invece, vedono il desiderio come una forza creativa, un'energia che ci spinge a fare, creare e connetterci con il mondo in modi sempre nuovi. Questa forza creativa la chiamano "macchina desiderante".


Una "macchina desiderante" è come un insieme di ingranaggi e componenti che lavorano insieme per produrre qualcosa. Allo stesso modo, il nostro desiderio non è qualcosa che ci manca, ma un motore che ci spinge a creare, a costruire relazioni, a esplorare nuove idee. E proprio come un rizoma, il desiderio si muove in molte direzioni diverse, collegando cose che magari sembrano non avere nulla in comune.


 Come funziona il pensiero rizomatico


Il pensiero rizomatico è diverso dal pensiero lineare perché non cerca di mettere tutto in ordine, con un inizio e una fine chiari. Invece, è un pensiero che accetta la complessità, le connessioni inaspettate e i percorsi che si intrecciano. Immagina di studiare un argomento: invece di seguire un libro di testo capitolo dopo capitolo, inizi a esplorare quello che ti interessa di più, collegando idee da diverse materie, come storia, scienze e arte. Ogni volta che impari qualcosa di nuovo, puoi collegarlo a quello che sai già, creando una rete di conoscenze che cresce in tutte le direzioni, proprio come un rizoma.


### Perché è importante?


Il pensiero rizomatico ci aiuta a vedere il mondo in modo più aperto e meno rigido. Nella vita, non tutto segue un percorso lineare. Spesso, dobbiamo affrontare situazioni complesse in cui molte cose si collegano tra loro in modi che non avevamo previsto. Imparare a pensare in modo rizomatico ci permette di essere più flessibili, di accogliere nuove idee e di vedere le connessioni nascoste tra cose apparentemente distanti.


Conclusione


Il pensiero rizomatico è un modo di vedere il mondo che accoglie la complessità e la molteplicità delle connessioni. Collegato al concetto di desiderio e di macchina desiderante, ci insegna che il pensiero e l'azione umana non devono essere limitati da percorsi lineari e gerarchici. Invece, possiamo esplorare, creare e connetterci in modi che sono più simili a una rete in continua espansione. Questo tipo di pensiero può aiutarci non solo a capire meglio il mondo, ma anche a vivere in modo più aperto e creativo.

mercoledì 21 agosto 2024

Comprendere e riconoscere il Trauma Complesso

 Introduzione


Viviamo in un mondo in cui ogni giorno sentiamo parlare di eventi drammatici: guerre, disastri naturali, violenze e abusi. Tuttavia, ci sono ferite invisibili che possono lasciare segni profondi nelle persone, soprattutto nei giovani. Queste ferite, spesso silenziose e nascoste, sono ciò che gli esperti chiamano "trauma complesso". Non si tratta solo di episodi estremi, ma anche di esperienze quotidiane e prolungate nel tempo, come sentirsi ignorati, non amati o trattati con indifferenza.


Cos'è il Trauma Complesso (PTSD)?


Il trauma complesso non è solo il risultato di un singolo evento catastrofico, ma può derivare da una serie di esperienze negative accumulate nel tempo. Immagina un bambino che cresce in un ambiente dove non si sente mai davvero ascoltato o apprezzato. Oppure pensa a un adolescente che, per anni, subisce bullismo a scuola o viene trascurato dai genitori. Queste esperienze, seppur apparentemente meno "drammatiche" rispetto a un incidente o un abuso fisico, possono comunque lasciare cicatrici profonde nella mente e nel corpo di una persona.


Gli effetti del trauma sulla persona


Quando una persona vive esperienze traumatiche, specialmente se prolungate nel tempo, il suo corpo e la sua mente possono reagire in modi che non sempre comprendiamo. Il trauma può far sentire una persona costantemente in allarme, come se fosse sempre in pericolo, anche in situazioni normali. Può portare a sentimenti di tristezza profonda, rabbia, paura e, a volte, a una sensazione di distacco dalla realtà. Può provocare frequenti incubi e flashback. Questo stato di allarme continuo può compromettere la capacità di concentrarsi a scuola, di creare relazioni sane e di vivere una vita serena.


Perché è importante riconoscere e prevenire il trauma


Riconoscere il trauma complesso è il primo passo per prevenirlo. Quando capiamo che certi comportamenti – come ignorare qualcuno, deriderlo o trattarlo con freddezza – possono avere un impatto devastante, diventiamo più consapevoli delle nostre azioni e delle loro conseguenze sugli altri. Trattare gli altri con rispetto, gentilezza e comprensione non è solo una questione di buona educazione, ma un modo per prevenire traumi che potrebbero avere effetti negativi a lungo termine.


Comportamenti da Evitare


Come giovani, avete il potere di influenzare positivamente la vita degli altri. Evitare certi comportamenti può fare la differenza:


- Bullismo e derisione: Deridere o umiliare un compagno può sembrare un gioco per alcuni, ma per chi subisce può essere un'esperienza devastante che lascia cicatrici profonde.

- Esclusione sociale: Non includere qualcuno nelle attività di gruppo o ignorarlo può farlo sentire invisibile e non desiderato, alimentando un senso di solitudine e disperazione.

- Indifferenza: Non prestare attenzione a chi cerca aiuto o sostegno è un comportamento che può rafforzare il senso di abbandono in chi già si sente solo.

  

L'importanza dell'empatia


Essere empatici significa mettersi nei panni degli altri, cercando di capire come si sentono. Questo non solo aiuta a prevenire comportamenti che possono causare trauma, ma rende anche il mondo un luogo più accogliente e sicuro per tutti. Sostenere un compagno che attraversa un momento difficile, ascoltare senza giudicare, e offrire un gesto di gentilezza sono tutte azioni che possono fare la differenza.


Conclusione


Il trauma complesso è una realtà che colpisce molte persone, anche se non sempre in modo evidente. Come adolescenti, avete la responsabilità di creare un ambiente in cui tutti si sentano visti, ascoltati e amati. Non sottovalutate mai il potere delle vostre azioni: piccoli gesti di gentilezza e rispetto possono evitare grandi ferite emotive. Siate consapevoli delle vostre parole e dei vostri comportamenti, perché ognuno di noi ha il potere di influenzare positivamente la vita degli altri.

Riferimenti bibliografici:

B. Van der Kolk, Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell'elaborazione delle memorie traumatiche, Milano, Cortina Editore, 2015

martedì 13 agosto 2024

Il valore educativo del fallimento

Nella società odierna, il successo viene spesso visto come l'unico obiettivo degno di essere perseguito. Siamo costantemente esposti a immagini di trionfo: campioni sportivi, celebrità, imprenditori di successo. Tuttavia, questa visione unilaterale della vita rischia di farci dimenticare un aspetto fondamentale dell'esistenza umana: il fallimento. In questo tema, rifletteremo sul valore educativo del fallimento e su come, nella vita, sia importante non solo avere successo, ma anche confrontarsi con la sconfitta, la catastrofe e il fallimento.


Il fallimento, per quanto doloroso possa essere, è una componente essenziale del nostro percorso di crescita. Fallire significa spesso scontrarsi con i propri limiti, riconoscere di non essere infallibili e imparare dai propri errori. È attraverso il fallimento che scopriamo chi siamo veramente, cosa siamo disposti a sacrificare per i nostri sogni, e quanto siamo resilienti di fronte alle difficoltà. Senza il fallimento, non saremmo in grado di apprezzare appieno il valore del successo, perché non conosceremmo il prezzo che esso comporta.


Uno degli insegnamenti più preziosi che il fallimento può darci è l'umiltà. Spesso, chi ha successo in modo immediato o senza grandi difficoltà può cadere nella trappola dell'arroganza, pensando di essere superiore agli altri. Il fallimento, invece, ci ricorda che siamo tutti umani, soggetti a errori e debolezze. Esso ci costringe a rivedere le nostre aspettative e a fare i conti con le nostre fragilità. In questo senso, fallire può renderci più empatici e comprensivi verso gli altri, aiutandoci a costruire relazioni più autentiche e sincere.


Inoltre, il fallimento è un potente strumento di apprendimento. Ogni volta che falliamo, abbiamo l'opportunità di riflettere su ciò che è andato storto e di capire come migliorare in futuro. È attraverso i fallimenti che sviluppiamo le nostre capacità di problem-solving, di adattamento e di creatività. Quando ci troviamo di fronte a un ostacolo o a una sconfitta, siamo costretti a pensare fuori dagli schemi, a trovare soluzioni innovative e a crescere come individui. In questo modo, il fallimento non è mai fine a se stesso, ma diventa un trampolino di lancio per successi futuri.


D'altra parte, non possiamo ignorare l'importanza del successo nella vita. Il successo ci dà fiducia in noi stessi, ci motiva a perseguire i nostri obiettivi e ci offre la possibilità di realizzare i nostri sogni. Tuttavia, è fondamentale capire che il successo non può essere l'unico metro di misura del nostro valore personale. Se viviamo costantemente sotto la pressione di dover avere successo a tutti i costi, rischiamo di perdere di vista ciò che è veramente importante: la nostra felicità, il nostro benessere e la nostra crescita interiore.


Misurarsi con la sconfitta, la catastrofe e il fallimento è un'esperienza inevitabile e, in molti casi, necessaria. Attraverso queste esperienze, impariamo a gestire lo stress, a superare le difficoltà e a diventare persone più forti e consapevoli. Il fallimento ci insegna a essere pazienti, a perseverare nonostante le avversità e a non arrenderci mai di fronte ai nostri sogni. E, forse, la lezione più importante che il fallimento può darci è che il valore di una persona non si misura solo dai suoi successi, ma anche dalla sua capacità di rialzarsi dopo una caduta.


In conclusione, il fallimento è un aspetto inevitabile della vita, ma anche uno dei suoi insegnamenti più preziosi. È attraverso il fallimento che impariamo a conoscere noi stessi, a sviluppare le nostre capacità e a diventare persone migliori. Il successo è importante, ma è il fallimento che ci offre le lezioni più significative e che ci prepara ad affrontare le sfide future con maggiore determinazione e consapevolezza. In una società che celebra il successo, è fondamentale ricordare che il fallimento non è una sconfitta definitiva, ma un'opportunità per crescere e migliorare.

Riferimenti bibliografici:

A. De Botton (con la School of Life), Fallire e vivere felici, Parma, Guanda, 2024